laR+ L'intervista

Fabrizio Bosso e il meraviglioso Stevie

Il trombettista italiano al Teatro del Gatto stasera, 27 gennaio, per l'omaggio a Stevie Wonder, ‘uno che il jazz ce l’ha dentro di sé’

Biglietti in vendita su www.jazzcatclub.ch o alla cassa serale
(Cifarelli)
27 gennaio 2025
|

Alla maniera dei jazzisti, ai quali piace scomporre e ricomporre, partiamo dalla fine, dal futuro di Fabrizio Bosso, nome di riferimento della tromba in Italia e all’estero. È pronto per ‘About Ten’, progetto nel quale al suo quartetto aggiunge sei fiati per omaggiare alcuni grandi come Ellington e Gillespie; è pronto anche per un progetto di brani originali più altri presi dai suoi dischi con orchestra (da suonarsi con orchestra, e come sennò). C’è poi un trio con Lorenzo Tucci alla batteria e Daniele Sorrentino al contrabbasso, «una cosa più elettrica e pazzerella».

Bosso l’Italia avrebbe dovuto girarla per suonare il suo personale tributo a Pino Daniele, ‘Il cielo è pieno di stelle’, ma il fido pianista Juan Oliver Mazzariello (con lui in un altro piccolo gioiello intitolato ‘Non smetto di ascoltarti’, in trio con Fabio Concato a omaggiare il canzoniere italiano e pure quello del cantautore milanese) si è rotto un polso e tornerà presto. Ecco perché nell’omaggio a Stevie Wonder che arriva stasera alle 20.30 al Teatro del Gatto, naturale prolungamento del disco ‘We Wonder’ uscito nel 2022, al pianoforte c’è Vittorio Solimene, insieme agli altri due che suonano in quell’album di innamorati del grande Stevie, ovvero Jacopo Ferrazza al basso e Nicola Angelucci alla batteria. Dal palco del Jazz Cat Club, per il primo appuntamento del 2025, arriveranno estratti dalla fine degli anni 60 fino all’ultima pubblicazione di Stevie Wonder, dunque spazio a cose come ‘Another Star’, ‘Isn’t She Lovely’, ‘My Cherie Amour’, ‘Sir Duke’, ‘Moon Blue’ e ‘Overjoyed’.

Fabrizio Bosso: l’amore per Stevie Wonder ha un titolo, un brano, un album?

No, non c’è un disco in particolare, è solo grande amore per questo artista incredibile. Con Stevie Wonder ci sono cresciuto, ho iniziato a fare i miei primi soli di tromba sui suoi dischi oltre che su quelli di Gino Paoli, Ornella Vanoni, Luigi Tenco, Louis Armstrong, la musica che girava in casa. La mettevo sul piatto e ci suonavo sopra. La genialità di Stevie Wonder l’ho compresa poi maturando come musicista, capendo come sia riuscito a metabolizzare tutti gli stili musicali e a tirarne fuori un suono, un linguaggio proprio, nel quale si sentono le influenze di musica brasiliana, si sentono il soul, il funk. Quella per Stevie è una passione che condivido con i colleghi che hanno affrontato questo lavoro con me.

Come si arriva a selezionare nove brani all’interno di una produzione così ricca? Chi è a decidere: la tecnica o la passione?

Abbiamo pensato a una scaletta che ci permettesse di costruire un nostro concerto, con le dinamiche giuste di quando suoniamo dal vivo. Il primo criterio di scelta è di norma quello passionale, si sceglie il brano che si vorrebbe tanto suonare, ma con gli anni ho imparato a pensare a un disco con in testa la sua forma dal vivo. Da giovane mi è capitato di registrare brani che poi in concerto non ho mai suonato, non perché fossero brutti ma perché nel contesto non ci stavano. Sin dal primo di questi concerti dedicati a Stevie la scaletta ha incluso tutti i brani del disco, cosa che mi piace molto perché ci dà la possibilità di muoverci nella nostra zona di comfort.

Nel disco regna grande rispetto per gli elementi di fondo, nessuno stravolgimento, ogni brano rimane identificabile…

Non amo molto i tributi che andavano per la maggiore tempo fa, quella tendenza dei jazzisti a stravolgere tutto, armonie e melodie. Si ritiene che se un musicista decide di fare un tributo sia perché gli piace ciò che suona, a meno che non sia obbligato a farlo, dunque suonando ‘Overjoyed’ chi potrebbe avere il coraggio di cambiare un accordo? Come si può modificare la perfezione? Armonicamente, per questo disco non abbiamo cambiato nulla se non spostare una tonalità per sfruttare le caratteristiche blues di un brano che già erano insite nell’originale; dal punto di vista ritmico, altro non abbiamo fatto se non trovare il modo di portare alcuni brani più vicini al nostro mondo, forti del fatto che il mondo di Stevie è già calato anche nel jazz. Se proprio si vuole stravolgere, allora si può prendere un brano come riferimento e scriverne uno del tutto nuovo.

Che è un po’ quanto accade con ‘We Wonder’, la canzone che dà il titolo al disco. È stato questo l’approccio?

Sì, ma la cosa è avvenuta in modo molto semplice, d’istinto: ho immaginato una melodia, Julian (Mazzariello, ndr) ha iniziato a mettere qualche accordo ed è nato il brano.

Stevie Wonder è sinonimo di apertura, caratteristica che riguarda anche il calarsi di Bosso in ogni genere musicale. L’elasticità si acquisisce, è studio, è predisposizione?

Dipende da ciò che si vuol fare nella vita. Io ho sempre sentito l’esigenza di farmi ispirare da altri mondi musicali. Con tutto che il jazz, o il bebop addirittura, è la musica con la quale sono cresciuto e nella quale mi riconosco, non riuscirei a suonarla per un anno intero. Per essere creativo anche nelle cose che sento più vicine, ritengo fondamentali le collaborazioni con il pop, essendo io cresciuto con le voci. A partire da quella con Sergio Cammariere, le mie sono sempre state collaborazioni e mai forzature, che mi hanno arricchito, qualcuna più e altre meno, in base al feeling creatosi con l’artista o la band di turno.

Il fatto è che questo lavoro è bellissimo ma anche faticoso: siamo costretti ad ascoltarci ogni sera, cosa che dopo un certo numero di anni può diventare un problema; ci si tranquillizza perché il pubblico è diverso e non succede nulla di male se ripeti una frase che hai suonato la sera prima. Aiuta molto, in questo senso, avere musicisti come quelli che suonano con me, connessi, che seguono la mia stessa strada e contribuiscono a un aiuto reciproco dal punto di vista non solo strumentale, ma anche creativo.

La melodia italiana c’entra qualcosa nell’apprezzamento che le viene dall’estero?

A parte il canto lirico, in Italia abbiamo le bande, nelle quali al flicornino, alla tromba solista viene spesso chiesto di esporre il tema, la melodia. In più d’una situazione la tromba è lo strumento protagonista oltre che – lo dicono in tanti – il più vicino alla voce umana, per le possibilità timbriche, di trasformazione del suono da sottile a rauco, per il trombettista che usa il diaframma come lo usano i cantanti. Tutto questo ci avvicina molto alla voglia di omaggiare la voce.

Ha parlato di Cammariere nel 2003, là dove sarebbero arrivate sue collaborazioni con Simona Molinari e Raphael Gualazzi, per dirne un paio. Bosso al Festival è una specie di certificazione che Sanremo copre ogni genere, eppure è molto che il jazz è assente da quel palco: c’è un perché?

Chi lo sa. In realtà il jazz è sempre coinvolto nel pop, io continuo a fare molte collaborazioni con i cantanti, poi in televisione la cosa non è ritenuta importante, o magari è solo un caso. Ho pensato che forse a Sanremo il cantante vuole restare al centro del discorso, il solista può distogliere l’attenzione anche per poche note. Qualche anno fa c’era più voglia di condivisione, poi magari quest’anno ci stupiranno, sebbene forse giusto Serena Brancale potrebbe portare qualcosa di jazz. Suonai nel brano che presentò qualche anno fa, e che poi non fu preso.