laR+ La recensione

Bob Dylan, questo sconosciuto

‘A complete unknown’ è una bella playlist illustrata, un film da salotto, agiografico come ‘Bohemian Rhapsody’ ma del tutto succube del protagonista

Candidato agli Oscar in 8 categoria, inclusa quella del miglior attore: Timothée Chalamet è Dylan (nelle sale)
(Keystone)
28 gennaio 2025
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Fin dall’uscita del primo trailer si è capito che su ‘A complete unknown’ si sarebbe litigato. Non solo in ragione della qualità o la necessità di un nuovo film su Bob Dylan, oltretutto sull’abusatissima parabola iconoclasta della svolta elettrica, ma proprio della liceità dell’operazione. Da decenni infatti Hollywood applicava a Dylan una sorta di aniconismo, simile a quello con cui alcune grandi religioni si proibiscono la rappresentazione diretta del divino. Perfino nel biopic precedente, il capolavoro ‘Io non sono qui’ di Todd Haynes (2007), l’ineffabile menestrello veniva frantumato in sei alter ego, nessuno dei quali osava portare il suo nome. Nel dylanianissimo ‘A proposito di Davis’ (2013) I fratelli Coen concedevano all’inconfondibile sagoma di Dylan pochi gracchianti secondi in un polveroso controluce, mefistofelica apparizione del talento puro, la dannazione di chi non ne ha abbastanza. Il razzie award per il peggior Dylan cinematografico va invece probabilmente all’imbronciato Hayden Christensen in ‘Factory Girl’, biopic su Edie Sedgwick del 2007, ma perfino in quel caso gli autori ebbero il tardivo buon senso di cambiare nome al personaggio (Bob Dylan si arrabbiò comunque moltissimo e fece arrivare letterine non proprio simpatiche da parte dei suoi avvocati, mentre Lou Reed, a sua volta mal scimmiottato nel film, andò meno per il sottile nel commentarne la sceneggiatura: “È una delle cose più brutte che abbia mai letto. È scritta da un cretino analfabeta”).

Con tiepidino garbo

Qui invece un mimetico Timothée Chalamet passa i primi dieci minuti del film a presentarsi a tutti per non lasciare adito a dubbi (“Come ti chiami?”, “Bobby”, “e poi?”, “Dylan”) e il successivo paio d’ore al centro dell’inquadratura, in scene in cui il conflitto fondamentale è sempre lui che spiega a qualcun altro, o qualcun altro che spiega a lui, cosa significa essere Bob Dylan. Un po’ come in quelle ballate (molto dylaniane, va detto) in cui ogni strofa comincia ripetendo il nome del protagonista.

Questo potenziale dissacratorio, con la premessa di mostrare al pubblico la carnalità di un personaggio allo stesso tempo ultra-celebre e del tutto misterioso, viene però dissipato da ‘A complete unknown’, che si limita a ripercorrere con tiepido garbo, si direbbe perfino con soggezione, le ben note vicende di Dylan dagli esordi al Greenwich Village ai fischi al Newport Festival, nella cornice di un’America anni Sessanta ben fotografata e depilata, un tantino da libro Taschen. Le scelte sono spesso deliberatamente convenzionali, come se il regista stesse sussurrando a un pubblico molto anziano che deve evitare emozioni forti: ci sono la chitarra sempre a tracolla, gli appartamenti al secondo piano nella Manhattan bohémien, le discussioni idealistiche ai tavolini dei caffè. Ogni tanto un personaggio accende la radio – nel senso che c’è proprio il close-up con la mano che gira la manovella – e il notiziario trasmette i turbolenti-anni-sessanta: il Vietnam, Kennedy, la crisi dei missili di Cuba. “Bobby” va a dormire nell’imminenza dell’olocausto nucleare e si risveglia a letto con Joan Baez. È uno che casca in piedi.

‘Ma davvero Johnny Cash era così figo?’

‘A complete unknown’ è davvero un’operazione speculare a ‘Io non sono qui’, nelle intenzioni quanto negli esiti: se il film di Haynes aveva il coraggio di andare a cercare una qualche verità su Bob Dylan nel luogo da lui privilegiato della mistificazione e dell’invenzione, questo nella sua rassicurante letteralità è del tutto superficiale, una di quelle “storie vere da cui è tratta la leggenda” che solleticano un momento di curiosità ma si fanno subito dimenticare. Qualcuno ha apprezzato il tocco impersonale di James Mangold, la stessa totale assenza di sguardo con cui un paio di anni fa aveva serigrafato sullo schermo un’altra icona pop come Indiana Jones, impacchettando un episodio finale tanto rispettoso della mitologia del personaggio quanto inerte. Ma la verità è che la devozione, spesso, è una forma di pigrizia.

Sedute al cinema dietro di me c’erano tre signore, reduci direi da un aperitivo tosto, che hanno canticchiato e chiacchierato per tutto il film (“ma davvero Johnny Cash era così figo?”, “ah bellissima Blòindeuind”, “appena esce io comunque voglio vedere quello di Paolo Genovese, il trailer mi ha fatto tanto ridere”). Le ho detestate per abitudine per buona parte del primo tempo, poi ho capito che avevano ragione loro. ‘A complete unknown’ è un film da salotto pensato per non intralciare la conversazione, “un quadro nello studio di un dentista” come la sceneggiatura fa definire le canzoni di Joan Baez a un Dylan adorabile carognetta, visto mille volte a cominciare dal documentario del 1967 ‘Don’t Look Back’, una battuta che finisce per essere un involontario ma perfettamente calzante auto-compendio del film.


Keystone
Monica Barbaro è Joan Baez

Due grandi donne diventate ancille

‘A complete unknown’ dovrebbe funzionare come un musical, affidando lo sviluppo dei blandissimi conflitti in campo – un triangolo sentimentale con due donne che il protagonista non ama, il parricidio artistico di un mentore a cui vuole bene come a un vecchio zio trombone, insomma una versione omeopatica del coming of age – alle canzoni, eseguite con indubbia perizia da un volenteroso Chalamet. È come playlist illustrata che ‘A complete unknown’ può forse essere apprezzato, o come uno di quei documentari in cui star e celebrità raccontano il loro rapporto di venerazione per un grande artista. Chalamet ha voluto questo film al punto di produrlo, ma anche le interpretazioni di Edward Norton (Pete Seeger, il succitato mentore) e Boyd Holbrook (Johnny Cash) non sono soltanto eccellenti ma anche piene di amore per un’epoca, un mondo, una mitologia, soprattutto un personaggio.

Discorso diverso per i personaggi femminili. Nonostante le ottime Monica Barbaro ed Elle Fanning, la prima protagonista anche di una notevole performance canora, la sceneggiatura relega due donne nella realtà fortissime come Joan Baez e Suze Rotolo (fidanzata giovanile di Dylan che comparve con lui sulla cover di ‘Freewheelin’, qui ribattezzata “Sylvie”), a ruoli poco più che ancillari, intrappolandole in un triangolo di gelosie e palpitazioni romantiche da romanzo rosa che certamente non rende giustizia a nessuna delle due.

Tutto il film ha un carattere agiografico che condivide con molti dei biopic musicali recenti, da ‘Bohemian Rhapsody’ a ‘Rocketman’, ma essere così succubi al proprio protagonista da scrivergli intorno personaggi femminili che sembrano esistere e provare sentimenti solo in funzione a lui è un’ingenuità non da poco.

Insomma, riascoltare tanta ottima musica è forse l’unica buona ragione per avvicinarsi con un po’ di ottimismo a questo biopic che riesce a essere al contempo prolisso e avaro, e va riconosciuto che Timothée Chalamet è proprio bravo a cantare Bob Dylan. Ma Bob Dylan è ancora più bravo e i suoi album, vorrei segnalare, si trovano su tutte le maggiori piattaforme, non intervallati da insulsaggini come: “Cosa vuoi essere?”, “Qualunque cosa non vogliono che io sia”.