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‘Gli anni’, la danza per ricucire gli strappi nella memoria

Domenica 2 febbraio in scena al San Materno lo spettacolo di Marco D’Agostin interpretato da Marta Ciappina, vincitore di due premi Ubu 2023

Marta Ciappina
(Michelle Davis)
1 febbraio 2025
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Un tentativo di riempire la distanza fra l’allora e l’oggi, fra accadimenti di un tempo e il modo in cui appaiono oggi. È questo il Leitmotiv de ‘Gli anni’, lo spettacolo di danza contemporanea di Marco D’Agostin, interpretato da Marta Ciappina, che aprirà la stagione del Teatro San Materno di Ascona domani alle 17. Un’opera che è valsa all’autore e alla protagonista in scena il premio Ubu 2023 (il massimo riconoscimento italiano per la danza) come miglior spettacolo di danza e migliore interprete. Danza, parole e musica intrecciate in un rapporto tra memoria individuale e memoria collettiva: il corpo che diventa il mezzo per un racconto che parte da una storia tragica, l’omicidio del padre dell’interprete nel 1991.

«Definirei ‘Gli anni’ un oggetto poetico, un’azione poetica ibrida, dialogo con la danza, ma anche con il teatro – spiega Marta Ciappina –. È un’azione poetica e scenica in cui il corpo si colloca al centro di un racconto che si muove all’interno di un dispositivo più prossimo al teatro che coreografico. Dal punto di vista dei contenuti ‘Gli anni’ cerca di raccontare nel corso dello spettacolo la vita della mia famiglia e gli episodi in cui essa si è intersecata con la storia dell’Italia, in un arco di tempo dagli anni Ottanta fino al presente. L’impianto drammaturgico intende creare una ‘staffetta’, fare da spola fra ricordi autobiografici e ricordi collettivi. Il titolo è volutamente ‘bipartito’ per alludere anche alla presenza e alla quota pop di dettagli all’interno dello spettacolo. Da una parte si riferisce al romanzo ‘Gli anni’ di Annie Ernaux da cui Marco D’Agostin ha estrapolato l’impianto drammaturgico, la spola a cui accennavo tra presente, passato e futuro che è proprio enucleata dichiaratamente da esso. Dall’altra parte si riferisce a Max Pezzali e agli 883 non solo per evocare gli anni della mia adolescenza, ma anche per mettere in allarme lo spettatore avvisandolo che lo spettacolo si muove a partire da piani molto diversi, dal pop alla solennità della scrittura di Annie Ernaux e viceversa.

Rispetto ad altre forme d’arte come la canzone o la poesia, forse più immediate in quanto si servono del linguaggio verbale, con quale linguaggio, quali codici la danza racconta attraverso il corpo?

Nello specifico, ne ‘Gli anni’ gli elementi teatrali vengono in aiuto per esplicitare delle zone e degli anfratti dove il corpo non può arrivare. In generale il linguaggio contemporaneo della danza ha una potenza drammaturgica che poggia anche sul mistero e sull’enigma e che si affida alla sensibilità del pubblico, quindi non tutto deve essere svelato. Che è il motivo per cui è un linguaggio che ancora si esplica in una cornice molto ristretta perché non è di immediata ricezione.

Si ha in effetti la percezione che la danza, rispetto ad altre arti, sia un po’ meno protagonista, meno visibile rispetto all’impatto sul pubblico. È così?

Non è una percezione, è la realtà. Direi che è soprattutto una questione, diciamo, di numeri, perché i luoghi deputati alla danza sono pochi, per cui in questa quantità così irrisoria è sempre molto complesso intercettare e incontrare non tanto il pubblico esperto quanto quello che non lo è, che è ciò a cui puntiamo.

In questo senso, dunque, la contaminazione con il teatro può rendere la danza più accessibile?

Sì, ma direi che nel caso dell’opera di Marco D’Agostin ciò non risponde a una strategia per diffondere il prodotto scenico ma è proprio connesso e legato alla sua poetica, che si muove all’interno di due cornici, quella della danza e quella del teatro.