laR+ L'intervista

Alessandro Sciarroni e un viaggio sonoro chiamato ‘U.’

Il 7 febbraio al Sociale di Bellinzona, l’artista e coreografo dirigerà 7 cantanti-performer, sul palco a far da tramite con la tradizione corale italiana

Con la ticinese Raissa Avilés, la prima a destra. Lo spettacolo inizia alle 20.45, prevendita all’InfoPoint Bellinzona, su www.ticketcorner.ch e relativi punti vendita
5 febbraio 2025
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Dal fondo verso il proscenio, lentamente e all’unisono. I sette cantanti-performer di ‘U.’ si muovono tra il silenzio e il canto, e il canto è un inno di gioia, speranza e amore. ‘U.’ è il nuovo progetto dell’artista e coreografo Alessandro Sciarroni, Leone d’oro della Biennale Danza, calatosi nella tradizione corale italiana che va dal 1968 al 2019 e riemerso con una performance da vedersi e ascoltarsi venerdì al Sociale.

Alessandro Sciarroni: per cosa sta ‘U.’?

I titoli sono sempre un mistero. A volte arrivano subito e sono chiari, altre volte non arrivano proprio, come per il mio spettacolo ‘Senza titolo’. Questa U è arrivata tanto tempo fa e mi piace perché può significare tante cose: potrei dire che è la U pronunciata in inglese, che suona ‘you’, una chiamata a chi osserva. Ma il significato resta volutamente misterioso.

Da dove arriva il suo interesse per la tradizione corale italiana, così forte da diventare spettacolo teatrale?

In generale, rimango sempre molto affascinato da quella serie di pratiche, discipline, saperi che vengono tramandati di generazione in generazione con cura, passione, amore, costanza. Mi pare sempre di trovarmi davanti a qualcosa di molto più antico di me e che racconta una storia molto più antica di noi. Danze, suoni e canti, in particolare, mi sembrano rivelazioni archetipiche sul genere umano. In questo caso, oltre alla bellezza musicale dei canti, conta la centralità di alcuni messaggi presenti nei testi, che in apparenza stridono con i tempi che stiamo vivendo, ma ci mostrano la semplicità di un messaggio che forse abbiamo perso e che si potrebbe provare a recuperare.

Guardando alle foto di scena di ‘U.’, non compaiono elementi scenografici…

No, lo spazio è nudo, i cantanti sono immobili e compiono soltanto alcune avanzate verso il pubblico. Durante le prove abbiamo provato a sperimentare, a organizzare nuove composizioni, anche ad attraversare possibilità coreografiche, movimenti del corpo, ma alla fine la scena si è radicalizzata sulla centralità del canto e sulla potenza dei testi e della musica.

Quanto di duchampiano c’è in U.?

È vero, vengo accostato a ciò che fece Marcel Duchamp all’inizio del secolo scorso, e cioè prendere un oggetto non creato da lui e metterlo in scena. Anche in questo caso le composizioni sono state scelte accuratamente, tolte dal contesto originale e messe in ambito teatrale, ma ‘U.’ presenta differenze: qui si tratta di pratiche, per Duchamp si trattava di oggetti materiali. Qui il lavoro è di grande collaborazione innanzitutto con i compositori, tutti viventi tranne Angelo Mazza, una sinergia ha portato gli stessi compositori a segnalare altri autori. Il lavoro che porta al palco è sempre enorme, e quanto agli interpreti non si tratta solo di eseguire un canto: sono interessato alla psicologia del performer, alla sua capacità di provare e trasmettere emozioni.

La cura per la tradizione ha a che fare con il conservatore di beni culturali che è in lei?

‘Conservazione dei beni culturali’ sta a indicare un percorso di studi in ambiti di storia dell’arte, l’obiettivo non era conservare, ma piuttosto studiare e comprendere questo mondo. In questo senso sì, molto spesso traggo ispirazione dal modus operandi di artisti visivi del presente e del passato più che dal lavoro di altri coreografi. L’arte è senz’altro un mondo che mi ha affascinato molto.

Il teatro arriva prima o dopo questi studi?

Arriva più o meno nello stesso momento. Mi ero trasferito a Parma per studiare conservazione dei beni culturali e nello stesso anno avevo cominciato a studiare teatro in maniera pratica, all’interno di una compagnia di teatro di ricerca. Avevo una formazione che fino a quel momento nulla aveva a che fare né con il teatro né con l’arte, ho studiato da geometra, vengo da una famiglia molto bella, con radici contadine e operaie, in casa mia non c’erano libri. Quando sono arrivati i 19 anni si è aperto il mondo dell’arte e della letteratura, una grande rivelazione.

La sua definizione di pratica artistica è la seguente: ‘Piacere fino all’ossessione’…

Lavoro nell’ambito delle arti performative, mi chiamano coreografo, una definizione nella quale ormai mi trovo a mio agio benché io non abbia mai studiato danza in maniera accademica. Probabilmente i miei strumenti di composizione sono limitati, forse per questo prendo un elemento e lo sviluppo, dicono, fino alla saturazione, ma si tratta sempre e comunque di una ricerca del piacere. Anche i danzatori che in scena ripetono gli stessi movimenti per ore sono il risultato di un lungo allenamento che trasforma la fatica in piacere, processo non diverso da quello sportivo. Per questo, molto spesso, nonostante dal punto di vista fisico lo sforzo sia enorme, si possono vedere i miei performer sorridere, che non è un’indicazione registica ma una strategia per prendersi ulteriore cura della pratica in corso e per essere in grado di condividere questo piacere con chi li osserva.

Quella definizione portava a un’altra, all’arte non come pura e semplice creatività ma ‘cura e dedizione’…

Ritengo miracoloso che nel 2025 ci siano ancora persone disposte a uscire di casa, prendere l’auto, cercare un parcheggio e comprare un biglietto per assistere a qualcosa che accade in tempo reale, in giorni in cui tutto succede attraverso i telefonini. Quello con lo spettatore è un incontro che ho sempre voglia di sostenere, tengo a dare un certo tipo di benvenuto, a creare un’energia empatica con chi osserva, e cerco di porgli delle domande.

Per concludere: come l’ha cambiata, se l’ha cambiata, il Leone d’oro alla carriera?

È stata una grande emozione, ma anche un momento difficile perché ricevere un premio alla carriera quando hai solo 42 anni implica l’essere in grado di accettarlo, una responsabilità che fortifica da tutto ciò che avverrà dopo. Sento di essere stato benedetto, e che l’esperienza mi ha reso più forte.

Chi è di scena

‘Un grande regalo artistico’

Tra i sette performer di ‘U.’ c’è anche la ticinese Raissa Avilés, artista che per natura spesso arricchisce la musica di ulteriori significati, come nel caso del recente tributo a Chavela Vargas. «Sì, ‘U.’ è più di un concerto – ci dice – per via dell’approccio drammaturgico e spaziale. È un concerto perché il fulcro sono le canzoni, è la pratica del canto corale, ma c’è una parte fisica che, anche se minimalista, è di grande difficoltà proprio perché lavoriamo sull’immobilità, non ci vediamo tra di noi, nessuno ci guida e restiamo in contatto con i soli nostri sensi».

Avilés si dice grata ad Alessandro Sciarroni: «La profondità del suo agire è tale che in me c’è stato un forte rinnovamento del senso stesso del mio lavoro, di cosa vuol dire cantare insieme e per il pubblico. Il suo approccio è radicale, entra nel nucleo di ogni pratica esplorata: è stato un grande regalo artistico».


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Raissa Avilés