In scena la tragedia di Sofocle in un adattamento a cura di Andrea De Rosa che mantiene intatta l'angoscia di ancestrali tabù
“A cosa servono gli occhi se non c’è più niente da vedere?”. La tragica domanda di Edipo devastato dalla scoperta di un’oscena verità che era sempre stata davanti a quegli occhi squarcia la penombra che grava sull’”Edipo Re” andato in scena al LAC martedì 24 e mercoledì 25, con adattamento e regia di Andrea De Rosa sul testo tradotto da Fabrizio Sinisi.
La tragedia di Sofocle attraversa venticinque secoli mantenendo intatta un’angoscia palpabile e crescente man mano che l’evidenza dell’abominio compiuto si fa strada sgomitando fra l’incredulità e la negazione. Si direbbe una versione modernamente gotica, quasi horror, dove l’orrore è sotteso nella vicenda di Edipo che espone gli ancestrali tabù del parricidio e dell’incesto. La scena, allestita da Daniele Spanò, è cupa, le luci gialle creano più ombre di quanto illuminino, i pannelli di plexiglas che celano le figure creando una sensazione glaciale, alimentata dal nastro adesivo posto all’altezza degli occhi degli attori che rende il senso di una cecità che potrebbe dissolversi se solo ci si muovesse dalla propria posizione.
Edipo (Marco Foschi) si sbraccia alla ricerca del colpevole della morte di Laio, la cui morte o esilio è l’unica salvezza dal morbo che affligge la città di Tebe: la voce di Apollo, il dio obliquo e vendicatore, tramite il criptico oracolo di Delfi ha parlato. Ma la stessa voce dell’enigma dà anche la soluzione, impietosa, gelida: “Sei tu”. La verità che Edipo non può, non vuole accettare: meglio la paranoia verso il cognato Creonte, accusato di complottare insieme all’indovino Tiresia, che lo indica come l’omicida, per deporlo e prendere il potere. Meglio ancora la negazione, alimentata dalla regina Giocasta che in un impeto di protettività che assume inquietanti toni materni, arriva a mettere in dubbio l’oracolo, la voce del Dio: d’altronde Laio è morto per mano di banditi, non del figlio come annunciato da una profezia, lo dice un testimone. D’altronde Edipo non ha ucciso il padre e giaciuto con la madre come recitava un’altra profezia, ciò per cui era fuggito da Corinto: il re Polibo, suo padre, è morto di morte naturale, e lui stesso è adottato, lo dice il messo giunto a portare la notizia. Gli oracoli sbagliano, gli indovini possono fallire, basta vedere ciò che appare sotto gli occhi, prendere per assoluta l’esperienza personale, (qualcosa che, in effetti, sembra di aver già sentito venticinque secoli dopo Sofocle, proprio mentre un morbo dall’origine poco chiara mieteva vittime in tutto il mondo): basta ripeterlo a se stessi come fa Giocasta in un’inquietante esplosione di risa isteriche al limite della follia.
Ma follia è non ascoltare la voce degli dèi, la voce del dio che è una ma ha molti volti, quelli dell’indovino Tiresia e dei vari messaggeri, tutti interpretati da un magistrale Roberto Latini, la voce che semina indizi a comporre un quadro sempre inquietante: è una tensione che si percepisce quasi sulla pelle, resa ancora più disturbante dalla meta-consapevolezza dello spettatore che l’ombra della scena non nasconde la verità, che basta alzare lo sguardo per vedere. Fino all’anagnòrisis, la rivelazione del più tragico dei segreti che nel suo orrore produce nel pubblico la catarsi, il dissolversi dell’agonia di assistere al disfacimento del complesso di menzogne su cui poggiava l’intero mondo di Edipo. La luce esplode, infine, ed è tutto fuorché salvifica: annunciata dal grido agghiacciante del coro, illumina, quasi abbagliante, la katastrophé, mentre suoni martellanti accompagnano il racconto, grottesco e isterico, del suicidio di Giocasta e dell’auto-accecamento di Edipo, scopertosi al tempo stesso figlio e marito, padre e fratello. E poi buio, si direbbe quasi finalmente: non serve più vedere quello che era chiaro fin dall’inizio. Solo il bastone di Edipo illumina, per poco, la scena, una luce che è l’unico supporto dell’ormai esule e reietto, cieco nel corpo com’era stato, finora, cieco nell’anima.