Il regista Gabriele Vacis racconta la guerra nei ‘Sette a Tebe’ da Eschilo, in scena il 26 e 27 marzo al Teatro di Locarno
È in arrivo al Teatro di Locarno lo spettacolo ‘Sette a Tebe’, ispirato all’omonima tragedia di Eschilo, per la regia di Gabriele Vacis, con la giovane compagnia PoEM PotenzialiEvocatiMultimediali, scenofonia e ambienti di Roberto Tarasco, una produzione Teatro Stabile di Torino. Il testo, rappresentato la prima volta ad Atene nel 467a.C., è incentrato sulla guerra fratricida fra Eteocle e Polinice, entrambi figli di Edipo, la cui stirpe è condannata all’estinzione da una maledizione divina, ed era in origine parte di una trilogia di cui ci resta questo solo tassello, il terzo. In precedenza a Locarno, con lo stesso gruppo e la regia di Vacis, avevamo visto ‘Antigone e i suoi fratelli’, da Sofocle, quasi un sequel di ‘Sette a Tebe’, anche se di diverso autore.
‘Sette a Tebe’ è in scena il 26 e 27 marzo, con un incontro pubblico che si terrà in teatro il 27 alle 18. Gabriele Vacis, che di solito segue la compagnia in trasferta, non potrà esserci per problemi di salute, ma l’abbiamo raggiunto al telefono. E la prima curiosità riguarda il fatto che, nonostante il dramma tratti un tema di attualità come la guerra, e della famiglia di Edipo, che tiene banco sui palcoscenici di tutto il mondo grazie alle tragedie di Sofocle, ‘Sette a Tebe’ non è una tragedia molto rappresentata. Perché? «Perché il cuore di ‘Sette a Tebe’ è la strategia, ovvero si tratta di qualcosa che ha strettamente a che fare con quel momento, cioè, quando loro dicevano per esempio ‘alla quinta porta arriva Partenopeo, perciò noi ci mettiamo quel guerriero lì’, per i Greci significava qualcosa, sapevano di che cosa parlavano. Mentre se noi teniamo quel tipo di impostazione, noi non sappiamo più chi sono questi, talmente si è perduta la memoria. Quello che invece per me è importante e la ragione per cui ci siamo occupati di ‘Sette a Tebe’ è che noi stiamo vivendo proprio questa situazione: in tutti i dibattiti televisivi si fa la strategia dell’Ucraina, si dice ‘Zelenski adesso sposterà le truppe, userà questi armamenti… ma i russi hanno duemila testate nucleari…’, tutti siamo diventati specialisti di strategia militare. È una follia.
Comunque lei questa tragedia ce l’ha nel cuore da molto tempo perché in YouTube circola un video del 1998 in cui, in una specie di lectio magistralis, lei analizza il coro delle ragazze tebane davanti a un pubblico attentissimo. Che cosa è cambiato da allora?
Si trattava di ‘Totem’, uno spettacolo che facevamo io e Alessandro Baricco, raccontando appunto i totem della nostra cultura. Io raccontavo Eschilo, lui Rossini. È cambiato un sentimento generale per cui noi nel ’98 pensavamo che la terza guerra mondiale non sarebbe mai scoppiata, pensavamo che tutto il mondo si fosse convinto di quello che diceva Einstein, che se la terza guerra mondiale si fosse combattuta con le testate nucleari, la quarta l’avremmo combattuta con la clava. Poi Putin ha rivelato la sua vera natura, poi è arrivato Trump… e oggi non abbiamo più questa tranquillità, perché questi – posso dirlo? – pazzi furiosi non si sa che cosa potrebbero fare. E quindi il sentimento generale in Europa è il riarmo, cosa che nel ’98 nessuno pensava, anzi venivamo da Reagan e Gorbaciov che avevano firmato il disarmo. Adesso siamo in una situazione diversa. Quel racconto che facevo era centrato sul coro, perché il protagonista delle tragedie di Eschilo è sempre il coro, come ci insegnano al liceo. E i personaggi in qualche modo si staccano dal coro e ci rientrano, quindi il coro di ‘Sette a Tebe’ è un coro di fanciulle tebane, che sono quelle che hanno più da perdere in guerra, quelle più in pericolo, perché i loro coetanei devono andare a combattere e probabilmente ci lasceranno le penne, però le ragazze, prima di lasciarci le penne, subiranno tutto quello che possiamo immaginare debbano subire, perciò sono quelle che soffriranno di più di questa situazione. E dunque le ragazze, invece di fare la strategia, che è propria dei maschi, dicono no ragazzi, qui bisogna pregare, bisogna inventare altri sistemi di dibattito pubblico, sennò moriamo tutti. In ogni caso per gli uomini discutere di strategia è eccitante, e lo è ancora oggi.
Qui noi vediamo contrapporsi due diversi punti di vista nei confronti della guerra, c’è quello maschile che nella guerra vede una necessità e un’occasione di gloria, mentre per le donne è una sciagura da evitare principalmente con le preghiere agli dei. Quindi la guerra è una sciagura ma è anche molto attraente, perché gli uomini non possono fare a meno di farla. Lo spettacolo ha un sottotitolo, ‘Questo terribile amore per la guerra’, parafrasando un saggio di James Hillmann.
Sì, il libro di Hillmann ci ha un po’ guidati perché adesso senti questi dibattiti sul pacifismo, chi è più o meno pacifista, poi ci sono i guerrafondai… Alla base di tutti questi dibattiti e di tutte queste parole che si spendono però c’è appunto quello che Hillman chiama “un terribile amore per la guerra”. Eschilo sapeva che la guerra porta solo disgrazia, ma nonostante questo 2500 anni dopo siamo di nuovo qua, ci sono 62 guerre in atto nel mondo, quindi perché continuiamo con questa follia? De Gregori lo dice semplicissimamente da grande poeta: perché la guerra è bella anche se fa male. Bisogna fare i conti con questo, bisogna fare i conti con l’adrenalina spaventosa che la guerra mette addosso alle persone. E noi abbiamo vissuto ottant’anni di pace. Il nostro Occidente tanto vituperato ci ha garantito ottant’anni di pace. Il problema che abbiamo è: che cosa può essere più eccitante della guerra? L’unica cosa più eccitante della guerra è la convivenza, perché è ancora più difficile della guerra. Trovare il modo di convivere, pur bisticciando perché siamo umani, è l’unica cosa più eccitante della guerra.
Eschilo però è stato non solo un grande drammaturgo, ma un grande soldato, anzi il suo epitaffio ricorda che ha combattuto valorosamente nella battaglia di Maratona (490 a.C.), mentre non si fa cenno dei suoi successi teatrali. Leggendo il suo dramma ci si potrebbe chiedere qual è il punto di vista dell’autore sulla guerra. L’impressione è che lui non la condanni, che ci dica che la guerra si può vedere in più modi, da diversi punti di vista, però non prende posizione. Perché?
Questo riguarda tutti i grandi drammaturghi, scrittori, artisti, che riescono a non prendere posizione, che riescono a raccontarci la situazione com’è. Per quanto concerne Eschilo, Sofocle, Euripide e gli altri autori che sono esistiti ma che non conosciamo, avevano un compito molto preciso. Eschilo era anche un sacerdote, un sacerdote guerriero, un’idea che oggi a noi sembra strana. Pericle inventava la democrazia e i drammaturghi a teatro avevano il ruolo di spiegarla e raccontarla al popolo, perché la democrazia prima non c’era, quindi le regole della convivenza venivano inventate in quel momento. Perché dopo 2500 anni siamo così legati a queste figure straordinarie e perché sono straordinarie? Ma perché erano capaci di mettere in scena, cioè di spiegare al popolo, la regola che era stata appena definita, inventata, che stavano inventando, e nello stesso momento l’eccezione alla regola stessa. E questa è scuola. La scuola non mi dà un punto di vista, ma mi dice: questa è la regola, questa è la legge, e queste sono le eccezioni perché siamo umani, quindi abbiamo bisogno di regole ma dobbiamo poter tener conto delle eccezioni. E questo i greci lo mettevano in scena nel teatro, che era la scuola del popolo.
C’è anche la questione dell’antefatto. Il testo ci presenta questa guerra come una guerra di difesa dei tebani guidati dal loro re Eteocle contro l’esercito invasore di Polinice. Però noi sappiamo che in realtà questa guerra nasce dal mancato rispetto degli accordi presi dai due fratelli, che avevano stabilito di alternarsi sul trono da un anno all’altro, e chi non vuole cedere il trono alla data stabilita è Eteocle. Tutto questo nella tragedia di Eschilo è solo vagamente accennato. Si parla di torti subiti da Polinice, senza spiegare quali. Sappiamo anche che il testo era parte di una trilogia, dunque è lecito pensare che l’antefatto sia stato chiarito in un altro tassello della trilogia non giunto fino a noi. Voi vi siete preoccupati di far conoscere al pubblico l’antefatto?
Certo. Quando lavoro con i miei vecchi compagni come Marco Paolini, Lella Costa, Laura Curino, mi dicono che sono sempre didascalico. Sì, perché quando vado a teatro e non capisco tutto, mi arrabbio. Il pubblico non è tenuto a conoscere tutto, quindi bisogna dare tutti gli elementi e anche in questo caso ci sono alcuni momenti narrativi in cui vengono forniti gli elementi essenziali per capire quello che sta succedendo. ‘Sette a Tebe’ fa parte di una trilogia, appunto. Noi abbiamo perso le altre due parti della trilogia di Eschilo, che comprendeva ‘Laio’ ed ‘Edipo’. E quindi veniva raccontato tutto naturalmente. Ma nella nostra trilogia, prima di ‘Sette a Tebe’, idealmente c’è ‘Antigone e i suoi fratelli’, lo spettacolo che abbiamo fatto l’anno scorso, e lì c’è proprio il dibattito su chi dei due ha ragione. La cosa è bellissima perché quando li facciamo per le scuole, sia ‘Antigone’ che ‘Sette a Tebe’, si apre un dibattito con i ragazzi del liceo ma anche delle medie.
In ‘Antigone’ c’è una scena in cui Polinice chiede a Eteocle il rispetto delle regole, ma Eteocle lo rimprovera di averlo abbandonato, quindi anche Eteocle ha le sue ragioni. E quando chiediamo alla fine ai ragazzi – e qui è quello che dicevo prima, cioè Eschilo spiega al popolo greco che se si fa un accordo, se si crea una regola, quella regola va rispettata, ma nel contempo mi racconta che ci sono eccezioni… – quando, dicevo, chiediamo ai ragazzi ‘chi ha ragione, Eteocle o Polinice?’, c’è un plebiscito per Polinice, perché tutti i ragazzi dicono ‘c’è una regola e la regola va rispettata’. Poi nella seconda parte di ‘Antigone e i suoi fratelli’ c’è il dialogo fra Antigone e Creonte, quando Antigone vuole seppellire il fratello Polinice. Ma lì la legge è dalla parte di Creonte il quale dice che no, non si può seppellire Polinice. E Antigone invece trasgredisce. Quindi chiediamo ‘chi ha ragione?’. E qui c’è sempre un plebiscito a favore di Antigone. Allora a questo punto noi chiediamo: ‘ma come, prima eravate d’accordo con Polinice che chiedeva il rispetto delle regole, e adesso siete d’accordo con Antigone che trasgredisce la legge?’ E qui vengono fuori sempre dei dibattiti bellissimi, perché questa è politica. Parlare di questo è parlare di politica. Ed è incredibile vedere come i giovani hanno una voglia pazza di parlare di politica. A questo punto c’è sempre qualcuno che dice ‘Antigone vuole trasgredire la legge, ma questa legge di Creonte è ingiusta’. Ma allora chi decide quando una legge è ingiusta?! Qui il dibattito è più bello dello spettacolo!
‘Sette a Tebe’ si conclude con l’entrata in scena di Antigone e Ismene, sorelle dei due contendenti, e con la dichiarazione di Antigone di voler seppellire Polinice, nonostante il divieto di Creonte, scena che sappiamo essere stata aggiunta in un secondo tempo al testo di Eschilo…
Sì, probabilmente è addirittura post-euripidea, quindi parecchio più tarda. Noi abbiamo deciso di non mantenerla, dopo grandi discussioni anche con la traduttrice Monica Centanni che è stata fantastica e ha fatto con noi il grande lavoro di mettere in bocca a questi ragazzi quelle parole, ben sapendo che la traduzione filologica è la base, ma quando le parole devono essere pronunciate, dipendono dai corpi che le pronunciano, e si è adoperata per trovare sempre le parole giuste che non tradissero le intenzioni originarie ma nello stesso tempo potessero essere pronunciate da corpi di venticinquenni. E alla fine abbiamo deciso di sostituire l’ultima parte apocrifa con i racconti dei ragazzi, con le loro esperienze. Quindi abbiamo fatto una sorta di innesto che ha richiesto un grande lavoro di autoanalisi per capire: ma noi di fronte alla guerra che facciamo…? C’è Gabriele che dice che non imbraccerà mai un fucile, nemmeno se arrivano i soldati di Putin sotto casa, mentre Lorenzo sostiene che reagirebbe armandosi subito, quindi c’è stato un lungo lavoro per capire le disposizioni di ognuno.
Perché ha scelto di intitolare ‘Sette a Tebe’ invece che ‘Sette contro Tebe’, che mi pare sia la traduzione più accreditata e più in uso?
La traduzione dal greco ci dà ‘Sette contro Tebe’, ma noi abbiamo scelto la traduzione dal latino (che è ovviamente la traduzione in latino dall’originale greco) che ci dà ‘Sette a Tebe’, perché in fondo non volevamo evidenziare ‘contro’, cioè non volevamo evidenziare lo scontro. Volevamo evidenziare il momento in cui si può ancora tornare indietro, ci si può fermare, che è il momento che stiamo vivendo adesso. È vero che Putin è disponibile alla pace? Che tipo di pace? Zelenski accetterà questa pace? Siamo proprio in quel momento lì. Abbiamo ancora questa possibilità. Speriamo che non si trasformi in un ‘contro’ definitivo.
Burruano
Gabriele Vacis