Sono i nuovi mostri gotici del nostro immaginario, come i vampiri e i licantropi di un tempo, spaventosi e irresistibili (‘The White Lotus’, 3ª stagione)
I pochi americani che non hanno trascorso questa settimana a lamentarsi dei disastri di Trump l’hanno trascorsa a lamentarsi del finale di ‘The White Lotus’, curiosamente con i medesimi capi d’accusa: pensavamo di farci quattro risate, di evadere un po’, non di finire in lacrime.
Una conclusione un po’ troppo dark, insomma, per la terza stagione della serie antologica di Hbo sui ricchi in vacanza, che il creatore Mike White ha difeso definendola “da tragedia greca”, secondo l’antica tentazione degli artisti americani incompresi di pensarsi europei (sapeste come siamo messi da queste parti in realtà, ragazzi).
Resta il fatto, e anche qui torna qualche assonanza con la presidenza Trump, che la terza stagione di ‘The White Lotus’ è stata la più controversa e molto probabilmente la meno riuscita, ma anche di gran lunga la più seguita. La formula antologica era del resto quella premiata nelle due stagioni precedenti: un resort a cinque stelle dell’immaginaria catena che dà il titolo alla serie, dove si intrecciano le vicende di una decina di personaggi emblematici dell’one percent (la famiglia wasp, il tipo losco con la fidanzata deliziosa, composizioni varie di arrampicatori e arrampicati) e tre o quattro salariati a fare da controcanto sociale. Le location sono naturalmente da sogno: infatti pare che ai divi non dispiaccia affatto trascorrervi qualche splendidamente retribuita settimana, e anzi parrebbero aver favorito la formazione del solito casting stratosferico: Michelle Monaghan si prende generosamente in giro nel ruolo dell’attrice vanesia e un po’ sfiorita, Carrie Coon (‘Gone Girl’, ‘Fargo’, ‘Avengers’) giganteggia nel proprio segmento, una ex musa stropicciata del cinema indie come Parker Posey si diverte a fare la più snob di tutti, Walton Goggins e Aimee Lee Wood incarnano la relazione disfunzionale che ognuno vorrebbe avere, di cui tutto episodio dopo episodio diventa trend sui social, dalle improbabili camicie di lui alla dentatura di lei.
Vanità, desiderio, sesso, manipolazione: gli ingredienti ci sono tutti e la ricetta è ben bilanciata, i ricchi di ‘The White Lotus’ sono abbastanza infelici e puerili da cacciarsi in situazioni avvincenti, ma anche da starci simpatici, e a dire il vero quella della satira di classe è più una postura che una dinamica della serie.
Mike White ha mestiere e senso dell’intreccio, i suoi attori ci mettono corpo e maestria nel catturare vezzi e tic ambientali, ma il segreto del successo di ‘The White Lotus’ è anche la critica principale che gli viene rivolta: se il testo ambisce a graffiare e demistificare lo stile di vita dei ricconi, il linguaggio lo celebra. Girata come se il Sam Mendes di ‘American Beauty’ dirigesse lo spot di una compagnia di crociere, tutta drappi, superfici luccicanti, notturni tropicali e tableaux alla Wes Anderson, la serie ha un’estetica completamente escapista, che ricopre di uno spesso strato di filtri instagrammabili le approssimazioni e le sgradevolezze estetiche che ben conosce chiunque abbia praticato, anche solo una volta e per ragioni professionali, quel gigantesco ossimoro che è il “turismo di lusso”. I petali di rosa che macerano invece di galleggiare nelle vasche da bagno delle suite matrimoniali, il vago odore fognario dei sanitari ai tropici che lotta con quello pungente dei detergenti di pulizie troppo frequenti, i buffet aperti 24 ore ma rinfrescati troppo di rado, le performance scadenti o addirittura kitsch negli intrattenimenti organizzati, le gerarchie feroci che rendono il personale di servizio cupo e furtivo. Di tutto questo in ‘The White Lotus’ non c’è traccia, il che è un po’ come fare un film di guerra senza mostrare il sangue perché non rientra nella palette di colori gradita al direttore della fotografia. Non a caso mentre i magazine culturali americani dedicano alla serie pensosi articoli sulle fasi del capitalismo citando Veblen e Pierre Bourdieu, il più smaliziato pubblico europeo prende la serie come puro intrattenimento e showcase consumistico, dibattendo più che altro dei marchi di moda indossati dai protagonisti o del décor delle suite.
“Essere ricco è come essere un supereroe” diceva un personaggio di ‘Succession’ in un memorabile monologo “ma meglio: puoi fare tutto quello che vuoi, le autorità non possono toccarti, e puoi indossare un costume, ma è disegnato da Armani”. E se coi supereroi si sono fatti miliardi, devono aver pensato i produttori di Hollywood, perché non coi ricchi?
‘The White Lotus’ è soltanto una stazione balneare nella lunga crociera culturale degli ultimi anni attraverso i mali dell’élite globale.
Da ‘Succession’ a ‘Triangle of Sadness’, da ‘Glass Onion’ a ‘Parasite’, fino a certi segmenti di ‘The Menu’ e ‘Saltburn’, i super ricchi sono diventati i nuovi mostri gotici del nostro immaginario: reclusi nei loro castelli tecnologici, incestuosi nelle relazioni, grotteschi nelle abitudini, e irrimediabilmente incapaci di comprendere il mondo che li sostiene. E come i vampiri e i licantropi di un tempo, sono insieme spaventosi e irresistibili. Li seguiamo per capirli, ma anche per sentirci superiori mentre li guardiamo affondare tra le lenzuola stirate e i piatti firmati da chef stellati. I temi, declinati all’epoca delle stock options, dei social media e del wellness, sono quelli che interessano gli scrittori alla ricchezza dai tempi di Shakespeare, o addirittura di Sofocle: il denaro libera o opprime? Quando i nostri desideri si realizzano, la vita perde o acquisisce significato? Il re è un dio o il re è nudo?
Già nel 2022 il sito Vice aveva pubblicato un articolo intitolato “Il piacere di veder soffrire i ricchi sullo schermo”, che consacrava il trend – inquadrandolo nella nostra più generale ossessione per i ricchi, che seguiamo sui social, imitiamo ed eleggiamo alle più alte cariche – individuandone anche le insidie. In un’epoca in cui quello delle disuguaglianze si sta faticosamente riaffermando come tema politico, in cui un modello di sviluppo basato sull’opulenza si sta rivelando insostenibile in molti sensi, in cui un personaggio come Luigi Mangione – il giovane che ha ucciso Brian Thompson, Ceo di una delle più grandi e spietate assicurazioni sanitarie americane – diventa una sorta di eroe popolare o come minimo un’icona pop, la riproposizione sullo schermo di fantasie del tipo “eat the rich” rischia di avere una funzione più che altro consolatoria, sostituendo alla ricomposizione di una coscienza di classe, di un serio dibattito sulla distribuzione delle risorse nella nostra società, un gusto subalterno per sberleffi tanto crudeli quanto in fondo innocui.
In fondo spostare il tema della ricchezza dal piano materiale a quello morale è una strategia tradizionale della conservazione, non certo del cambiamento. O per dirla con un gioco di assonanze, c’è il rischio che, per chiosare la frustrazione impotente nei confronti delle classi dominanti, si passi dall’antica battuta “dategli le brioche” a un più contemporaneo “dategli l’Hbo”.