Domenica 11 maggio la scrittrice inglese ospite di ChiassoLetteraria per presentare in anteprima l’edizione italiana di ‘Le nostre mogli negli abissi’
Che l’orrore sia un genere serio lo si dice da un po’. Che sia anche uno dei modi più efficaci per parlare d’amore, lutto e intimità queer lo si capisce leggendo Julia Armfield. Nel suo romanzo ‘Le nostre mogli negli abissi’ (Bompiani, 2024), una donna torna da una spedizione oceanica profondamente cambiata – e non nel senso motivazionale del termine. L’altra, rimasta a terra, cerca di convivere con il mostro che la partner è diventata. O che forse è sempre stata.
La scrittrice inglese sarà a ChiassoLetteraria domenica 11 maggio alle 15.15, allo Spazio Officina, per presentare in anteprima l’edizione italiana del romanzo e per dimostrare, una volta per tutte, che si può parlare di sentimenti anche senza rimanere incastrati nei soliti tropi romance. Niente svolte consolatorie, niente epifanie a tavola. «Di solito scrivo di personaggi che si trasformano in ciò che in realtà sono sempre stati», dice Armfield. «Per me, la trasformazione è quasi sempre una rivelazione, un segnale di consapevolezza: i personaggi arrivano a sé stessi – o escono allo scoperto». Le sue trasformazioni non sono mai decorative: servono a far venire fuori le crepe, non a tapparle. Se Gregor Samsa si sveglia e scopre di essere diventato un insetto, Leah torna dall’abisso e non è più leggibile secondo i codici umani. Ma il punto non è in cosa si sia trasformata, bensì da quanto tempo lo era. In ‘Le metamorfosi’, Kafka fa dire alla sorella di Gregor: “Dobbiamo cercare di sbarazzarci dell’idea che questo sia Gregor”. Armfield, con più pudore e più carne, suggerisce l’opposto: la mostruosità non è rottura dell’identità, ma la sua più radicale continuità.
Il soprannaturale – mostri, abissi, pareti che gocciolano – serve solo per mettere a fuoco ciò che è davvero importante: le noie emotive, i silenzi di coppia, le frasi non dette. «In realtà è molto più facile raccontare al lettore una storia di assoluta quotidianità se la metti accanto a qualcosa di estremamente arcano. L’uno mette in risalto l’altro e, in un certo senso, lo rende più credibile». Il fantastico, usato bene, funziona come un evidenziatore: non aggiunge nulla, ma rende visibile tutto quello che già c’era.
Le sue storie sono popolate da padri, madri e fantasmi – non nel senso di presenze sovrannaturali, ma come «dalle nostre versioni passate, dalle relazioni che abbiamo avuto, ma anche da ciò che avremmo potuto essere e non siamo stati». L’eredità, per Armfield, è un’altra forma di infestazione. «Le cose che i nostri genitori ci trasmettono, volontariamente o meno, e quelle che ereditiamo, più in generale, da chi ci ha preceduti», osserva. «Ciò che scegliamo di accogliere – o di rifiutare – è ciò da cui scaturiscono i personaggi, la trama, la narrazione, tutto quanto». Non c’è bisogno di spettri letterali quando si ha a disposizione il trauma generazionale. I suoi racconti (e romanzi) si costruiscono sull’eredità: emotiva, narrativa, biologica.
La narrativa queer di Julia Armfield non fa da vetrina, e non è pensata per rassicurare nessuno. Leah e Miri, le protagoniste, non incarnano quella versione levigata e rassicurante della cosiddetta ‘queer joy’. Non sono ‘modelli’, non sono ‘responsabili’, e soprattutto non sono lì per tranquillizzare. «Mi interessa semplicemente mostrare la queerness per com’è davvero», taglia corto la vincitrice del Polari Prize 2023. E aggiunge: «Credo che imporre agli autori queer il compito di rappresentare la queerness in una luce precisa – positiva, responsabile, o qualsiasi altra – sia, in una certa misura, intrinsecamente omofobo». E se oggi la pressione si è un po’ allentata, resta comunque forte l’impulso alla narrazione anestetizzata: «La mia versione di ‘queer joy’ non è un mondo in cui non succede nulla di brutto, ma uno in cui la queerness non è mai la causa dell’infelicità di un personaggio».
Nemmeno sull’orrore ha una visione indulgente. Anzi, ci tiene a precisare: «Credo che oggi riformulerei quello che ho detto in passato, specificando che l’horror gioca spesso nel riaffermare i traumi delle donne bianche cisgender come estremamente gravi, spesso a discapito di altri gruppi». Non serve scomodare Scream per capirlo: basta guardare quante volte la ‘paura vera’ ha la forma di una donna bianca sola nel bosco. Il suo modo di lavorare col genere è, se vogliamo, critico da dentro: ne sfrutta le possibilità per parlare di ciò che la letteratura mainstream preferisce ignorare.
L’autrice ha cominciato con i racconti – «la narrativa breve funziona come un trucco di magia, dove i personaggi sono solo secondari», ironizza. Poi è passata al romanzo, che invece richiede convivenza, tolleranza, empatia. «Il romanzo ti obbliga a passare del tempo con i tuoi personaggi e ti costringe a renderli, se non amabili, quantomeno tollerabili. Scopro di provare molta più tenerezza per i miei personaggi nella forma lunga, e questo impulso finisce per influenzare sia lo sviluppo della storia che il ritmo stesso della scrittura».
Eppure anche il romanzo, alla fine, è un’illusione di compiutezza. «Qualsiasi scrittore o scrittrice che crede di essere arrivato fino in fondo a tutto ciò che c’è in un romanzo, probabilmente si sta mentendo da solo». È la frase meno compiaciuta e più utile che si possa ascoltare da un’autrice oggi. E fa da perfetto contrappunto a quella scena del libro in cui l’acqua vuole farsi aria, e l’aria vuole farsi acqua. Né una né l’altra ce la fanno. Ma nel tentativo, succede qualcosa.