laR+ La recensione

‘The Monkey’, un horror di padri e figli

È nelle sale il film ‘autobiografico’ di Oz Perkins, storia di due gemelli e una demoniaca scimmia giocattolo impossibile da distruggere

Tratto da un racconto di Stephen King. Nella foto, Theo James (Hal e Bill Shelburn)
(Neon)
26 aprile 2025
|

Meno di un anno dopo ‘Longlegs’, caso commerciale (costato 10 milioni di dollari, ne ha incassati 126) che gli estimatori hanno paragonato a ‘Il silenzio degli innocenti’ e i detrattori anche, ma in modo molto meno gentile, il regista Oz Perkins torna in sala con ‘The Monkey’, che ne rappresenta l’opposto complementare. Tratto da un racconto di Stephen King (le analogie tematiche e strutturali con ‘It’ sono evidenti) già trasposto sullo schermo nel 1984 in ‘Il dono del diavolo’ di Kenneth J. Berton, ‘The Monkey’ racconta la storia di due gemelli adolescenti che trovano una scimmia giocattolo appartenuta al padre, pilota di aereo, che ha abbandonato la famiglia quando erano bambini. Presto realizzano che il giocattolo è una sorta di oscuro feticcio demoniaco, impossibile da distruggere, che quando si attiva determina morti spettacolari e atroci incidenti tra le persone che li circondano. Quando finalmente credono di essere riusciti a liberarsi del flagello, i due gemelli si perdono di vista e diventano due adulti diversamente danneggiati e disfunzionali, con vite familiari e personali abbastanza devastate (solo alla fine capiremo esattamente quanto). Si ritroveranno – insieme al figlio adolescente che uno dei due, Hal, ha prudentemente allontanato da sé e vede una volta all’anno – quando il mefistofelico pupazzo (“la scimmia è fondamentalmente il diavolo” dirà a un certo punto uno dei due, tanto per essere sicuri che allo spettatore non restino dubbi) tornerà a manifestarsi sanguinosamente.

Patti chiari

Il metaforone sul trauma intergenerazionale non è esattamente sottile, ma la sottigliezza non è la cifra di ‘The Monkey’. Tanto ‘Longlegs’ era cupo, astratto, magniloquente, quanto questo film è saturo, fracassone, smodato. A cominciare dall’incipit, con un divertentissimo cammeo di Adam Scott, nei panni del padre dei due protagonisti, sì può dire che ‘The Monkey’ è un horror che funziona più che altro come un musical: cioè è in realtà una tragicommedia familiare, nella quale ogni cinque o sei minuti l’azione si ferma per lasciare spazio agli ammazzamenti più truculenti, spettacolari e coreografati che si possano immaginare, quasi fossero numeri musicali.

Non è un film perfetto né particolarmente sottile, dicevamo, ma ha il grande merito di stabilire un patto chiaro con lo spettatore fin dalle primissime sequenze, in pregi e difetti: senso dell’umorismo trascinante ma non sempre a fuoco, personaggi sopra le righe, a volte troppo, ma anche una forza, verrebbe da dire una durezza tematica ammirevole: ‘The Monkey’ parla di padri e figli, dell’orrore di diventare grandi, dell’onnipresenza della morte, e su questi temi è un film veramente cattivo, disincantato, non consolatorio. Ma mai cinico. Il modo in cui i protagonisti sono quasi insensibili all’orrore, e quando qualcuno viene tritato o decapitato o sventrato di fronte a loro in pratica si asciugano il sangue dalle lenti degli occhiali e riprendono a fare quello che stavano facendo, a prima vista può sembrare una sorta di gag compiaciuta e postmoderna, o una stramberia tonale senza particolare significato, ma veicola in realtà uno dei significati principali del film. Oz Perkins è figlio di Anthony Perkins, Norman Bates di ‘Psycho’, che morì di AIDS quando lui era un ragazzino. Sua madre Berry Berenson, invece, si trovava sul volo American Airlines 11 che l’11 settembre 2001 si schiantò contro la Torre Nord del World Trade Center. ‘The Monkey’, film che lui stesso ha definito autobiografico, parla anche e soprattutto, in modo onesto e antiretorico, di come riesce ad affrontare la vita chi fin da piccolo ha un’inusuale assiduità con la morte.

Nessun moralismo

In questo senso ‘The Monkey’ riesce a emanciparsi da un vizio tradizionale dell’horror, perfino di quello elevated che negli ultimi anni si è emancipato dalle sale di seconda visione e dallo scatolone dei dvd in offerta per conquistare festival e critici in dolcevita e tote bag: il moralismo. Non c’è nulla di retributivo nella mitologia e nemmeno nella sceneggiatura del film, per lo più i giusti non vengono premiati e gli empi non vengono puniti, le parabole che potrebbero sembrare di dannazione o di redenzione non lo sono mai fino in fondo, vengono sempre sporcate, demistificate, complicate, ma questo disincanto totale non impedisce al film di celebrare alcuni valori fondamentali: la laicità, la consapevolezza, il libero arbitrio. E per questo è un film ultra violento in un certo senso del tutto privo di violenza, nel senso che ciò che ci turba e ci spaventa della violenza è la sua valenza morale, e ‘The Monkey’ la sottrae; la violenza è solo un fatto del mondo con il quale convivere. Certo, sbavature ce ne sono diverse, a cominciare dalla scelta di affidare il ruolo di entrambi i gemelli protagonisti a Theo James (‘The White Lotus’), ottimo attore ma individuo così assurdamente bello e magnetico che taglio e tinta fuori moda dei capelli non bastano certo a renderlo credibile nei panni del perdente radicale. O di Colin O’Brien nei panni del figlio Petey, viceversa talmente aderente all’archetipo dell’adolescente quirky che sembra generato da ChatGPT. O ancora il secondo cammeo, quello di Elijah Wood, che sembra messo lì più che altro per far poter dire in giro che a un certo punto c’è un cammeo di Elijah Wood.

Però il film funziona, non promette mai più di quel che mantiene e può essere goduto a tanti livelli diversi: commedia horror, dramma familiare, antologia pop-corn di morti spettacolari stile ‘Final Destination’. Tutto sommato non è poco.