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Un’opera in forma di rosa

Alla Scala ‘Il nome della rosa’ di Francesco Filidei tratto da Umberto Eco fa il tutto esaurito. Struttura densa ma conduzione e interpreti eccellenti

Al centro Adso da Melk, interpretato da Kate Lindsey. In scena a Milano fino al 10 maggio
(Brescia e Amisano)
2 maggio 2025
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Quando il compositore Francesco Filidei decise – quattro anni orsono – di trasformare in opera il corposo romanzo di Umberto Eco ‘Il nome della rosa’, già best seller internazionale, poi film di grande successo, sapeva di immergersi in una materia complessa e stratificata, ma il compito non gli fece tremar le vene e i polsi, bensì lo spronò a trovare un modo per trasferire all’impianto musicale tanta labirinitica densità.

Come noto, il romanzo di Eco, ambientato in un’abbazia piemontese nel 1327, è un vero e proprio affresco medievale leggibile a più livelli: al contempo giallo storico, manuale di filosofie del tempo e molto altro ancora, è riuscito, sebbene impregnato di tanta erudizione, a coinvolgere milioni di lettori nel mondo. Al centro c’è la figura del frate francescano investigatore Guglielmo da Baskerville chiamato, con il suo allievo, il giovane benedettino Adso da Melk (è lui da vecchio a rievocare la vicenda), a indagare su morti misteriose di monaci all’interno dell’abbazia. Gli snodi fondamentali sono almeno due: la breve e struggente relazione d’amore tra Adso e una giovane sconosciuta che sarà poi condannata al rogo, e – epicentro dell’intero romanzo – la lotta fra la luce della ragione e della scienza e le tenebre dell’oscurantismo religioso. Sotto questo aspetto il Medioevo di Umberto Eco non è lontano dal nostro presente, basti pensare a luoghi e comunità di tristissima attualità, dominati da fondamentalismi religiosi. C’è una biblioteca labirintica e inaccessibile, un sapere che viene tenuto nascosto perché conoscere significa liberarsi da dogmi e da paure, c’è un libro andato perduto, il secondo libro della Poetica di Aristotele che tratta della commedia, genere teatrale atto a suscitare nell’essere umano il temuto e ‘peccaminoso’ riso liberatorio, libro che, come scopriremo alla fine, il bibliotecario e assassino Jorge da Burgos ha cosparso di veleno per impedirne la lettura e la divulgazione nel mondo. Chi soggiace alla curiosità, al desiderio di conoscenza, muore. All’interno di questo schema fondamentale, c’è la presenza dell’inquisitore Bernardo Gui, ci sono le dispute fra ordini religiosi, il mito dell’eresia dolciniana, c’è la preghiera dei monaci, e ci sono anche – fuori romanzo – le indicazioni dello stesso Umberto Eco che vedeva nel medesimo i presupposti per un’opera buffa ‘con ampie arie e lunghi recitativi’, nonché un accostamento con le sinfonie di Mahler.

La preziosa architettura musicale si infrange contro le leggi del palcoscenico

Filidei, pur riducendo e adattando obbligatoriamente il testo insieme ai suoi tre librettisti (Stefano Busellato, Hannah Dübgen e Carlo Pernigotti), ha voluto trarre dal romanzo stesso la struttura musicale dell’opera, sviluppando il suo discorso in forma geometrica, speculare e frattale, ovvero nella forma frattale di una rosa. L’opera, in due atti, è divisa in sette giorni e in ventiquattro scene, denominate stanze, e si esprime attraverso una scrittura basata sui dodici suoni della scala cromatica (come nella precedente opera di Filidei, ‘Giordano Bruno’) che si alternano lungo le ventiquattro stanze con uno schema intervallare ascendente o discendente, che si apre e si chiude come i petali di una rosa. Lo stesso Filidei ne fornisce il disegno e una precisa descrizione. In breve, abbiamo una struttura portante sinfonica su cui si innestano arie e recitativi che mescolano stili diversi, derivanti in larga parte dal canto gregoriano. Citazioni e riferimenti sono moltissimi, come nel romanzo di Eco, e, per rendere il tutto più vario e godibile sul piano vocale, data l’assenza di ruoli femminili, Filidei ha avuto la felice idea di rappresentare Adso, Bernardo Gui e Ubertino da Casale con voci di donne ‘en travestie’.

Tuttavia la preziosa e densa architettura musicale si infrange contro le leggi del palcoscenico, che chiedono tensione drammatica, ritmo incalzante, strutture drammaturgiche serrate e soprattutto coinvolgenti. Ci sono momenti musicalmente belli, cori e pagine strumentali di grande efficacia, ma lo spettatore si perde talvolta in lunghi recitativi o scene di cui fa fatica a comprendere il senso teatrale, come l’ampia disputa sulla povertà di Cristo. Se la fortuna del film nasce dall’aver privilegiato un solo filone narrativo, quello del giallo storico, nell’opera si ha l’impressione che l’autore abbia tentato di non lasciare indietro nulla o quasi, dando vita a una struttura drammaturgicamente discontinua, di cui alla fine l’opera patisce. Verrebbe da dire che così come è stata scritta, quest’opera si presti più all’ascolto che alla messinscena.

Regia spettacolare e potente

La regia di Damiano Michieletto è spettacolare e potente, funzionale e in armonia con la musica, grazie anche alla lunga collaborazione con Paolo Fantin. Lo stesso Filidei immagina l’allestimento come un’installazione in un museo di arte contemporanea, e tale sembra essere, con la sua struttura labirintica visibile in alto, presieduta da un coro semicircolare di monaci, e l’irruzione di elementi scenici che rimandano alla struttura medievale dei ‘loci deputati’ nella sacra rappresentazione: c’è un bellissimo bassorilievo scolpito da cui escono corpi nudi che assalgono il giovane Adso, c’è la versione gigante delle lettere miniate con il caprone che suona il violino, e il diavolo stesso appare in scena con tratti vigorosamente danteschi, c’è la grande statua della Madonna nelle cui braccia Adso si accoccola e c’è la fanciulla che esce dal corpo del povero animale decapitato.

In scena troviamo interpreti eccellenti come Kate Lindsey nei panni di Adso e Daniela Barcellona (con un trucco incredibile!) in quelli di Bernardo Gui, o anche Lucas Meachem, autorevole e paterno Guglielmo da Baskerville. L’orchestra e il coro del Teatro alla Scala, cui si unisce il Coro di Voci Bianche, sono diretti con incontestabile dedizione da Ingo Metzmacher. ‘Il nome della rosa’, coproduzione con Opéra National de Paris e Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova, è in scena a Milano fino al 10 maggio.