L'attore americano ha portato l'ultimo capitolo della saga di Mission: Impossible, mentre in concorso passano i primi due film
La prima lunga giornata di Cannes ha lasciato il segno con l’attesissimo Tom Cruise, anima e volto di ‘Mission: Impossible. The Final Reckoning’, ottavo episodio della serie cinematografica Mission: Impossible, e il quarto diretto da Christopher McQuarrie, fedele scudiero di Cruise, che qui ha scritto anche la sceneggiatura insieme a Erik Jendresen.
Diciamo subito che vale la pena di vedere il film per scoprire il lavoro che impone al suo fisico il sessantaduenne Tom Cruise per rendere credibile il suo agente speciale Ethan Hunt, e diciamo che il suo lavoro ha superato l’estrema professionalità del suo essere stuntman per renderlo una forma ammirabile di arte. E nel film ci sono almeno due lunghe sequenze in cui questo lavoro viene esaltato: una nella profondità dell’Artico e una nelle altezze dei cieli tersi e infiniti del Sudafrica. Ci sarebbe da dire poi dei messaggi scientologici (trascendenza individuale, civiltà che bisogna salvare dalla sua follia…) che impregnano il senso del film. ‘Mission: Impossible. The Final Reckoning’ si apre con più di venti minuti di un accattivante montaggio dei precedenti episodi, in un'ottica di best of che disturba volutamente lo svolgimento della trama, ma che serve a collocare il mito Ethan/Tom Cruise, che si dovrà confrontare con un’intelligenza artificiale che ha preso il comando del mondo e che vuole portare l’umanità alla sparizione. Intorno a lui una squadra di professionisti a fargli da spalla nell'azione, anzi a recitare in un altro film, quello che non vede Tom Cruise protagonista, una scelta di regia che tende a creare il mito, adorato anche da chi collabora con lui. E il finale del film in una affollata piazza londinese, Ethan/Cruise vede chi ha lottato per lui, la bella Grace (una brava e ironica Hayley Atwell), la bionda e violenta Paris (Pom Klementieff), il capo in seconda Benji Dunn (il divertito Simon Pegg) e il più umano Degas (un apprezzabile Greg Tarzan Davis): non una parola, non una festa per la vittoria, si guardano da lontano e spariscono tra la folla, non c’è posto per un grazie nel mondo degli io che trionfano, solo il rituffarsi tra l’indistinta umanità. Da cartoon i cattivi, compresi i russi e l’entourage militare della Presidente Usa (una brava Angela Basset).
Il Concorso si è aperto con due film che in modo diverso affrontano la Storia: ‘In die Sonne schauen’ (letteralmente ‘Guardare il sole’, mentre il titolo internazionale è ‘The Sound of Falling’) scritto e diretto da Mascha Schilinski, e ‘Two Prosecutors’ del regista ucraino Sergei Loznitsa, al suo terzo film in selezione nel Concorso a Cannes. Loznitsa si è costruito una solida reputazione come regista di documentari prima di passare alla fiction, e in questo ‘Two Prosecutors’ si spinge verso uno sviluppo teatrale del suo dire cinematografico. Il film è tratto dal romanzo omonimo del fisico e sopravvissuto al Gulag Georgy Demidov (San Pietroburgo 16 novembre 1908 – Kaluga 19 febbraio 1987) e racconta la storia di un giovane e ingenuo procuratore ai tempi delle purghe staliniane. Il suo destino si compie quando gli viene consegnata una missiva da un prigioniero politico rinchiuso in un carcere di estremo rigore. L’innocente e sognatore uomo di legge riesce con caparbietà a entrare nel carcere e a parlare con un vecchio e malandato professore che, mostrandogli il suo corpo massacrato, lo convince a perorare la sua causa. Il giovane parte e va a Mosca a parlare a cuore aperto con il Procuratore Generale, denunciando la pericolosa svolta autoritaria e arbitraria raggiunta dalla polizia segreta con i tribunali corrotti; questi, senza misericordia, lo fa portare in carcere. Il regista ha dichiarato che il film racconta la realtà della Russia di Putin. E che questo fosse il suo obiettivo lo si comprende bene dal film che però non convince e annoia, per la pochezza del suo dire cinema trasformando tutto in un collage di elementari scenette mal colorate.
Meglio ‘The Sound of Falling’, opera seconda della regista berlinese Mascha Schilinski. Un film di atmosfere, una storia costellata di donne, il racconto di quattro generazioni di ragazze legate dalle mura di una fattoria nell'Altmark. Un film visivamente sorprendente, immagini che esplorano la memoria, l’identità umana e della natura che l’accoglie, una ricerca poetica che allontana il film da un’idea commerciale avvicinandolo alla magia dell’immagine in movimento che si fa fantasma del tempo da dire. Insieme un film carico di sessualità e morte, di scelte pesanti, di corse nei prati e nei fiumi, di cieli che raccontano e raccolgono i sogni. Un film forse troppo lungo, ma necessariamente lungo, per la vita che racconta, facendotela amare.