Dieci anni dopo la nascita, lo spettacolo di Daniele Anzalone – mai entrato stabilmente in repertorio – torna stasera, 31 luglio, al Paravento di Locarno
Ci sono opere che invecchiano bene, come certi vini, e opere che non invecchiano affatto, come certi governi. ‘Tonato Immigra… un immigraTo nato’, monologo scritto e interpretato da Daniele Anzalone, appartiene alla seconda categoria. Dieci anni dopo la sua nascita, lo spettacolo – mai entrato stabilmente in repertorio, salvo sporadiche apparizioni – torna giovedì al festival Teatro in Festa al Teatro Paravento di Locarno.
Per quanto sia facile immaginare Tonato con i tratti prefabbricati dello ‘straniero standard’ – disponibile in più colori ma mai in bianco – Anzalone gli nega ogni coordinata anagrafica. «Non mi piaceva dargli per forza una connotazione. Potrebbe venire da qualsiasi parte del mondo». Tonato è un uomo che addomestica uccelli e «riesce a vedere nei loro occhi ciò che hanno appena visto». Li manda oltre i confini come esploratori alati, per scrutare la terra dove sogna di vivere. E quando finalmente ci mette piede, colpito dalla nostalgia di essersi separato dai suoi volatili, vede un uccellino diverso che «a differenza degli altri, che facevano cip cip, questo, quando canta, fa cie cie». Lo prende. Lo perde. La polizia lo ferma. Lo portano in un CIE. E lui è convinto che lo portino a riprendersi l’uccellino. Un qui pro quo da commedia, se non fosse per il sottofondo drammatico delle tematiche.
In quel momento, il “cie” smette di essere una sillaba tenera da cinguettio e diventa un acronimo ostile, quanto la terra che accoglie Tonato: Centro di identificazione ed espulsione. La zona grigia dove lo Stato parcheggia esseri umani senza processo penale. «Prima si chiamavano CPTA, centri di permanenza temporanea e assistenza», racconta. «Io non lo sapevo, e molti non lo sanno ancora, che le persone vengono private della libertà personale senza aver commesso un reato».
Questa ambiguità lessicale – il doppio fondo tra il canto di un uccellino e un acronimo ministeriale – è il vero motore dello spettacolo. Una fessura semantica in cui si incastrano il titolo, il nome del protagonista e perfino la lingua in cui la storia viene raccontata. Il testo alterna italiano e siciliano ‘snellito’ per le orecchie svizzere, che si presume addestrate da anni di Montalbano a resistere a un minimo di disordine sintattico.
Ma Anzalone conserva in dialetto alcuni passaggi, non tanto per folklore o per il gusto di far sudare lo spettatore, ma per uno spaesamento misurato. «Se lui è straniero, va bene che parli una lingua che non sia proprio l’italiano». Una crepa linguistica che lascia filtrare l’esperienza di chi, ogni giorno, vive in una grammatica che il contesto non riconosce. «C’è un piacere, per me, nel far sì che il pubblico non capisca qualcosa», spiega. «Non la storia, ovviamente, ma una parola qua e là. Fa parte del gioco: se stiamo parlando di immigrazione, c’è il protagonista che migra e non capisce. È giusto che, per qualche secondo, non capisca nemmeno lo spettatore».
Non ci sono troppi fronzoli in scena. Solo un uomo e la sua voce accompagnato dalla musica, composta dalla madre. «Lei è riuscita a trasmettere il sentimento del viaggio, del distacco e del ritrovarsi, e questo mi aiuta molto in scena». Non c’è mai la tentazione di fare teatro nel senso più didascalico: Anzalone preferisce l’ironia all’invettiva. «Credo che si possa smascherare di più con qualcosa, se lo si fa anche con poesia». E se il CIE che racconta è un crudele gioco dell’oca – «ci sono persone che entrano ed escono, e poi tornano, perché la legge lo permette» – il piccolo Cie Cie è la sua parabola domestica: un volatile teoricamente libero, che sparendo porta via anche la libertà di Tonato, prima simbolica e poi reale. «I volatili rappresentano le radici in termini emotivi, e fanno da ponte verso la meta dove il protagonista vuole andare», spiega. «Quando vede questo uccellino, che ha un modo diverso di cantare degli altri, lui pensa che possa essere straniero, e quindi per empatia decide di acquistarlo».
In dieci anni, è incredibile che l’unico aggiustamento necessario sia semantico: «Ho contattato un amico avvocato che mi ha detto che non è cambiato nulla. Tutto è com’era esattamente dieci anni fa. Solo il nome è diverso». Una longevità che rende il monologo attuale perché intrappolato nello stesso presente che l’ha generato. Riportare in scena oggi ‘Tonato Immigra… un immigraTo nato’ è insieme trionfo artistico, ma anche una sconfitta civile. Un testo nato come finzione teatrale, ma che, a distanza di un decennio, è la cronaca di un Paese che invecchia senza mai, ostinatamente, cambiare.