La ricorrenza

Cinquant'anni di ‘Amici miei’ tra malinconia e cinismo

Uscito 50 anni fa d’estate come ‘un’altra delle commedie all’italiana’, tra una supercazzola e l’altra guardò dall’alto ‘Lo squalo’ di Steven Spielberg

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(Wikipedia)
16 agosto 2025
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Chi ha detto che uscire d’estate nuoce al destino di un film? 50 anni fa toccò ad ‘Amici miei’, il capolavoro di Mario Monicelli che resta oggi un racconto tanto giovane e perenne da essere entrato nel vocabolario per le sue battute memorabili (la ‘supercazzola’ è solo l’esempio più famoso) e per aver segnato il costume di una generazione come era accaduto a ‘La dolce vita’ quindici anni prima.

Mettere insieme questi due capolavori ha senso perché conferma come la commedia, genere che ha reso l’Italia famosa in Europa, possa avere lo stesso status di qualità del cinema d’autore che aveva portato i nostri registi all’Oscar e alla stima nel mondo.

V.M.

L’anteprima festivaliera di ‘Amici miei’ ebbe luogo nel mese di luglio 1975 al Teatro Greco di Taormina e successivamente la commissione di censura impose un divieto ai minori di 14 anni che, paradossalmente, attirò l’attenzione di un pubblico più vasto e curioso.

Uscito come “un’altra delle commedie all’italiana”, il film non ebbe subito un grande consenso di critica; solo il crescente favore del pubblico lo impose all’attenzione, fino a trasformarlo nel re degli incassi, in grado di guardare dall’alto in basso anche Steven Spielberg che aveva nelle sale ‘Lo squalo’.

L’omaggio di un grande a un altro grande

Nei titoli di testa di ‘Amici miei’ si legge:“Un film di Pietro Germi. Regia di Mario Monicelli”, l’ultimo omaggio di un grande a un altro autore che aveva concepito il film, ne aveva diviso il soggetto e le idee di sceneggiatura con Piero De Bernardi, Leo Benvenuti e Tullio Pinelli, aveva dovuto rinunciare al set per l’aggravarsi della malattia. Fu proprio Germi a chiedere a Monicelli di “completare il lavoro”, salutando la compagnia con la frase (leggenda o verità? Non lo sapremo mai) “Amici miei, ci vedremo, io me ne vado” che poi suggerì il titolo.

Lo spunto iniziale fu una storia vera, anche se poi molti elementi vennero apportati dagli autori e dagli interpreti, specie Ugo Tognazzi che amava colorare i suoi personaggi con ricordi di vita vissuta. Così Germi si ispirò a una storia degli anni 30, quando a Castiglioncello (provincia di Livorno) vivevano realmente cinque giovani che adoravano divertirsi insieme e fare scherzi alla gente: Mazzingo Donati, stimato medico immunologo fiorentino, Ernesto Nelli, architetto, Giorgio Menicanti, giovane nobile del luogo, Silvano Nelli, giornalista, e Cesarino Ricci, collaboratore dell’amico Silvano.

Alcuni di loro erano ancora vivi al tempo delle riprese e accettarono di buon grado l’indimenticabile ritratto che ne offrirono Ugo Tognazzi (lo spiantato conte Mascetti), il romantico cronista Philippe Noiret (il Perozzi), il sadico clinico Adolfo Celi (il Sassaroli), lo sfortunato amatore Gastone Moschin (il Melandri) e Duilio Del Prete (il gestore del Bar Necchi). A quest’ultimo si deve la “zingarata” più feroce, ai danni del pensionato Bertrand Blier (il Righi), mentre la celeberrima idea degli schiaffi in stazione fu messa a punto con la perfida collaborazione di Tognazzi.

Una livida alba fiorentina

La cornice ideata dagli autori ci racconta di una livida alba fiorentina in cui il giornalista Perozzi, rientrando a casa dopo la veglia notturna nella redazione del fiorentino La Nazione, si ribella al sonno, alla normalità della sua vita da divorziato sempre criticato da moglie e figlio e sogna un’altra giornata di vagabondaggi con i suoi amici ‘bischeri’ per “una giornata che non ci sarebbe mai più stata”. Alla fine del film, quando finalmente ha rivisto tanti momenti indimenticabili, Perozzi si stende a letto e viene colto da un infarto fulminante.

La sua ultima “supercazzola” è dedicata al prete chiamato al capezzale e al funerale gli amici, riuniti, si sciolgono in pianto che dopo poco si tramuta in una risata irrefrenabile, in onore alla vita che comunque prosegue. In queste due scene c’è tutta l’anima malinconica di Germi, ma anche il cinismo, solo apparente, del suo degno continuatore, Mario Monicelli che oggi possiamo riconoscere tra gli artisti più grandi del nostro cinema.

“La vera felicità – diceva il regista – è la pace con se stessi. E, per averla, non bisogna tradire la propria natura”. Questa è la natura dei personaggi di ‘Amici miei’ e per questo restano campioni assoluti di un’umanità che non smette di essere attuale.