Mostra e Concorso inaugurati ufficialmente da ‘La Grazia’, dopo una preapertura con il grande cinema di Eric von Stroheim e Gloria Swanson
Dopo fiumi di parole, e giorni di preparativi – e, aggiungiamo, dopo il presidente della Biennale di Venezia, Pietrangelo Buttafuoco, che ci ha tenuto a precisare che al Lido “… c’è una Mostra, non un Festival… un transito libero di linde nuvole” – finalmente i film hanno illuminato gli schermi. E le nuvole si sono mostrate altro che “linde”: piuttosto le abbiamo trovate inquietanti, a cominciare da quel ‘Queen Kelly’ (1928-29) opera incompiuta di Eric von Stroheim, che è servito di preapertura al Festival… scusi Presidente, alla Mostra, in una serata a inviti che si è trasformata in un grande successo, grazie alla qualità della proiezione e all’accompagnamento musicale dal vivo dei veneziani Syntax Ensemble su una nuova colonna sonora originale di Eli Denson, che presente alla serata ha, sorridendo, annunciato di essersi fidanzato ufficialmente proprio a Venezia in giorno prima, meritandosi l’applauso della sala.
Dobbiamo subito dire che la copia è nella versione restaurata da Dennis Doros, che ha recuperato frammenti del film e messi in ordine secondo la sceneggiatura di Stroheim. Operazione importante, perché nelle traversie passate da questo film mai completato, ci fu anche un tentativo della protagonista e produttrice Gloria Swanson di salvare i soldi spesi dopo aver licenziato il regista, facendo girare un finale alternativo, definito il “finale Swanson”, nel novembre del 1931. In questo finale, Kelly (la Swanson) muore dopo le sue esperienze con il principe (forse suicidio). Il principe Wolfram viene mostrato in visita a palazzo. Una suora lo conduce alla cappella, dove giace il corpo di Kelly. Si sa che queste scene furono dirette da Richard Boleslawski, fotografate da Gregg Toland e montate da Viola Lawrence, la stessa montatrice del resto del film, mentre la fotografia era originariamente di Gordon Pollock e Paul Ivano. Possiamo dire che il film oggi vive e non come oggetto o memoria, ma proprio come emozione cinematografica, necessario nel suo essere palpitante, crudele nella sua straordinaria narrazione, vera lezione di Cinema. La vicenda vede come protagonista una perfida regina (la incredibile Seena Owen) innamorata follemente di un principe (Wilson Benge), bello e insulso, che non ricambia e che, anzi, si innamora di un’innocente ma civettuola ragazza di convento, Patricia Kelly (la splendida Swanson), che per lui diventa “Queen Kelly”. Ironia straordinaria, la giovane si troverà con lo stesso nome a gestire un bordello in Africa, prima di essere ritrovata dal suo principe che la farà diventare veramente regina. Si resta estasiati dalla bellezza delle interpretazioni, della fotografia, del restauro, ma soprattutto della regia principesca di Erich von Stroheim.
Si scende una lunga scala e si trova ad aprire Mostra e Concorso ‘La Grazia’ di Paolo Sorrentino. Un film che ha suscitato nella prima parte risate in sala, seguite da silenzio interrotto solo da un applauso finale alla proiezione stampa, con molta parte del pubblico uscita durante i titoli, perdendosi la scena finale del film.
Niente di nuovo, è il solito Paolo Sorrentino, bell’artigiano del cinema, uno che sa confezionare bene il suo lavoro, questa volta forse ha esagerato nella lunghezza e in un coro alpino cantato da tutti a squarciagola per qualche minuto. C’è di tutto, nel film, compreso un Papa nero, brizzolato e con il codino, che va in giro in vespa. Protagonista è uno statuario Toni Servillo nella parte di un Presidente della Repubblica italiana, tale Mariano De Santis, in cui molti hanno voluto vedere l’attuale Presidente, anche perché uno dei drammi di De Santis/Servillo giunto all’ultimo semestre di incarico è il dover firmare una legge sull’eutanasia che da buon cattolico gli crea patemi di coscienza.
Intorno a lui, vedovo inconsolato da otto anni, c’è la figlia Dorotea (Anna Ferzetti) che gli controlla fumo e dieta, oltre a spingerlo a firmare la legge sull’eutanasia e due grazie: una a una donna che ha ucciso il marito violento e che un amante aspetta fuori dal carcere, e l’altra a un professore pensionato che ha tolto la vita alla moglie malata di Alzheimer.
Il suo ricordo dell’amata moglie è rovinato dalla memoria di un tradimento di lei quarant’anni prima, e per questo sospetta un sincero amico e politico Ugo Romani (un bravo Massimo Venturiello), ma l’unica che conosce il nome è la sua stretta amica Coco (Milvia Marigliano), una critica d’arte. Non manca qualche buona idea di cinema, come la visita del presidente portoghese, ma in generale il film si trascina tra una digressione e l’altra; c’è anche un collegamento dallo spazio dove un astronauta piange e poi, vedendo la sua lacrima sospesa in assenza di peso, ride. Senza mai crescere di tono, senza lasciare un palpito, come un compitino ben fatto ma senza anima.
Di altro coraggio, anche cinematografico, è armata la macedone Teona Strugar Mitevska per il suo ‘Mother’ che ha aperto Orizzonti. Di lei avevamo apprezzato a Berlino 2019 il potente ‘Gospod postoi, imeto i e Petrunija’, e in questo ‘Mother’ la riscopriamo alle prese con un tema religioso, visto che la protagonista è la sua famosa concittadina Anjezë Gonxhe Bojaxhiu, premio Nobel per la pace nel 1979, meglio conosciuta come Santa Madre Teresa di Calcutta, che lei ci fa incontrare nella capitale del Bengala Occidentale nell’agosto del 1948, quando ebbe infine l’autorizzazione dalla Santa Sede ad andare a vivere da sola nella periferia della metropoli a condizione che continuasse la vita religiosa. La regista scandisce gli avvenimenti in sette giorni, portando Madre Teresa a confrontarsi con il suo credo, con le consorelle e con la tragica miseria dello slum di Motijhil. Aiutato da una grande interpretazione di Noomi Rapace, nel ruolo della Santa, il film scorre, segnato da un ritmo che anche le aggressive musiche aiutano a essere coinvolgente. Aborto, suicidio, senso profondo del darsi agli altri, sono temi che scorrono in un film che fa fremere.