laR+ Venezia 82

Con Jim Jarmusch e Guillermo Del Toro il sole torna in Laguna

In Concorso il film di Olivier Assayas su Putin, il ‘Frnakenstein’ con Oscar Isaac e il corale ‘Father Mother Sister Brother’

Frankenstein
(Netflix)
31 agosto 2025
|

E finalmente il sole illuminò la laguna: alto si alza nella foresta il canto intrattenibile di quel cinema che della vita è suggello incanto e qui pensiamo al destino di ‘Le mage du Kremlin’ di Olivier Assayas.

Un film attesissimo, trattando del numero uno dei nemici del popolo occidentale. Il film di Olivier Assayas riguarda infatti Vladimir Putin che qui, insieme a scoprirne l’essenza abituale, ne conosciamo l’immane umano spingersi al finale. Quello che più colpisce è il dipingere un personaggio come assente da ogni pulsione erotico-sentimentale: per Assayas Putin è un essere francescanamente puro, caro al Dio che dal paradiso ha cacciato i colpevoli Eva e Adamo. Come nel romanzo ‘Il mago del Cremlino’ di Giuliano da Empoli, da cui è tratto il film, incontriamo insieme alla purezza di Putin un mondo russo incapace di scordarsi di essere stato sovietico. Questo fa del film una denuncia della guerra in atto tra il mondo occidentale, il nostro, e il mondo sovietico in cui l’impero putiniano si trasforma in necessario. Al centro del racconto troviamo il bravo, ma non sempre credibile Paul Dano, nei panni di un tale Vadim Baranov, eminenza grigia del nuovo impero capace di condizionare l’ascesa e il consolidamento di un esercito di paria sovietici, ma soprattutto capace di essere docilmente in contatto con un mondo che non appartiene al presidente. Ripercorrendo gli anni della loro vita, il film mette in evidenza il confronto tra il protagonista e Ksenia (Alicia Vikander), donna libera e inafferrabile, che incarna la possibilità di fuga, lontano da questo gioco pericoloso. Punto debole del film è proprio Jude Law come Vladimir Putin, che non va oltre la squallida messa in scena teatrale, come fosse un qualsiasi guitto.

Il film raccontando, soprattutto romanzando, la vicenda acquerellata dell’ascesa al potere del nuovo zar, dalla caccia agli oligarchi alla presa del governo, si dimentica proprio di Putin. E il ritratto che ne esce non regge il confronto alle presenze della società che il film irride. Spiega il regista: “I potenti di oggi brandiscono strumenti di manipolazione e distorsione di massa con una precisione un tempo inimmaginabile. In questo senso, ‘Le Mage du Kremlin’ non è tanto un film politico quanto un film sulla politica e sulla perversità dei suoi metodi, che ora ci tengono tutti in ostaggio”. Ma il regista sembra convinto che nonostante tutto, responsabile della guerra sia proprio l’Ucraina, con quel presidente filorusso cacciato via dalla rivolta arancione.

Un film epico in un mondo che non crede più all’epica

Di livello superiore, sempre in Concorso, il non perfetto ‘Frankenstein’ di Guillermo Del Toro, un film sulla memoria e sul rispetto dell’altro, un film visionario e affascinante, col peso del troppo detto, come se il pubblico non potesse capire. È il problema dei film targati Netflix, diretti non al pubblico attento di una sala, ma disattento fruitore del prodotto casalingo. Oscar Isaac è uno splendido Mostro, pieno di quel romanticismo che solo un del Toro in piena forma sa esaltare: perché il mostro non è lui, ma noi con la nostra incapacità di accettare l’altro, con la nostra superbia di dileggiare il diverso. Epico il film di Del Toro, epico in un mondo quello nostro che non crede all’epica e neppure alla poesia, ma si ferma blandamente a un’inutile prosa. Il film di Del Toro è un canto alla fantasia, alla violenza del sogno, ed è denuncia della nostra povertà a credere. Bisogna lasciarsi andare all’omerico dire del regista, al suo creare racconti fantastici, ed è duro denunciare qualche pausa nel suo magnifico dire, qualche indugiare, come se ci fosse paura nel dire, nell’esagerare del racconto, piccole ombre di fronte alla gioia bambinesca del lasciarsi sorprendere.

Quello che non è riuscito a fare Gianfranco Rosi con il suo lezioso e presuntuoso ‘Sotto le nuvole’ documentario troppo velato di finzione, ambientato tra il Golfo di Napoli e il Vesuvio, dove talvolta la terra trema, e manda fumi nei Campi Flegrei mentre i vigili del fuoco, novelli samaritani, rispondo a chi non sa l’ora, a chi ha il gatto in pericolo, a chi ha paura perché la terra trema. Tutto perfetto, come un compitino ben fatto, dove latitano le idee e dove l’emozione è assente. Peccato. Belle le citazioni e il bianco e nero per una volta sembra sprecato.

Le tre storie di Jim Jarmusch

Problemi ci sono stati per Jim Jarmusch e la produzione di ‘Father Mother Sister Brother’, quarto film in concorso in questo fine settimana e accusato di essersi fatto produrre da fonti vicine alla produzione di armi per Israele: “Mubi legata a Israele? Accordi firmati prima della guerra”, si è giustificato. Interpretato da Tom Waits, Adam Driver, Mayim Bialik, Charlotte Rampling, Cate Blanchett, Vicky Krieps, Sarah Greene, Indya Moore, Luka Sabbat, Françoise Lebrun, questo film in tre episodi è uno dei migliori visti in concorso qui a Venezia.

Spiega il regista: “‘Father Mother Sister Brother’ è una sorta di anti-film d’azione, il cui stile discreto e pacato è attentamente costruito per consentire l’accumularsi di piccoli dettagli, quasi come fiori disposti con cura in tre delicate composizioni. Le collaborazioni con i magistrali direttori della fotografia Frederick Elmes e Yorick Le Saux, il brillante montatore Affonso Gonçalves e altri collaboratori di lunga data elevano a una forma di cinema puro ciò che è iniziato come parole su carta”. E infastti vediamo tre storie legate da ragazzi con lo skate, in cui incontriamo un padre, Tom Waits, che sopporta malamente la visita dei figli che lo credono finito, mentre lui aspetta che se ne vadano per cenare con un’amica; una madre ansiosa per il destino delle figlie e che ignora che una è lesbica e l’altra è sola; un fratello e una sorella, gemelli, che cercano una ragione per la perdita dei genitori. Jarmusch sembra cantare una canzone di Waits, o comporre un concerto in la minore, regnano la malinconia, l’ombra della vita che finisce, il tempo che passa, l’illusione di vivere, e ti dici che è solo un film, ma sai che è la vita. E gli applausi non bastano.