Ai grandi film non servono sempre nomi glamour, come ‘L’étranger’ di François Ozon e ‘A House of Dynamite’ di Kathryn Bigelow (meglio il primo)
La pioggia del mattino si è sciolta in un pallido sole, la laguna si è riempita di navi in cerca di un approdo industriale a Marghera, o di uno più popolare. La scelta di non far passare i dinosauri marini davanti a San Marco si tramuta per i veneziani in una perdita di milioni di euro, e in canali cittadini più puliti e meno vittime del mare si ingrossa. Certo tutto si trasforma in caduca memoria, ma pochi passeggeri scendono nella bella Chioggia, è Venezia la meta, e in fondo è quello che succede in un festival: il pubblico invade le sale con i nomi glamour, ma dimentica tutti gli altri film in cui i bravi attori non sono divi. È il caso dei due film in concorso di cui scriviamo: il francese ‘L’étranger’ di François Ozon, che non aveva un cast da tappeti rossi così come ‘A House of Dynamite’ di Kathryn Bigelow, che si porta un giro di attori come Idris Elba e Rebecca Ferguson, i più famosi, con Gabriel Basso, Jared Harris e Tracy Letts, da scoprire. Diciamo subito che ci ha convinti più Ozon che la Bigelow, nonostante l’impegno della 74enne regista, prima a vincere un premio Oscar. Il fatto sta proprio nella sceneggiatura, forte quella del francese basata su un racconto omonimo di Albert Camus che aveva interessato nel 1967 anche Luchino Visconti, che chiamò Marcello Mastroianni per il ruolo del protagonista, il giovane Mersault, qui interpretato da Benjamin Voisin con Rebecca Marder nel ruolo di Marie, la sua fidanzata, Anna Karina per Visconti. Una frase spiega chi è il protagonista: “Aujourd'hui, maman est morte. Ou peut-être hier, je ne sais pas”.
Ci troviamo di fronte a un uomo che precipita nella voragine del suo io, mai incapace di essere noi. La modernità del dettato di un racconto pubblicato nel 1942, e che ancora oggi Le Monde posiziona al primo posto della classifica dei 100 migliori libri scritti nel ventesimo secolo, sta nella complessa semplicità dello sviluppo della vicenda e nella richiesta di onestà del protagonista, che anche a fronte di una condanna a morte non accetta compromessi per cercare di giustificarsi o chiedere perdono. Novello ecce homo, accetta cosciente di non avere un Dio cui rispondere e sfida il Cristo nell’accettare una condanna che diventa martirio. François Ozon ha il merito di una lettura lucida del capolavoro del Camus, una lettura aiutata da uno splendido bianco e nero firmato da Manu Dacosse, e da un gruppo di attori, tra cui Pierre Lottin, Denis Lavant e Swann Arlaud, capaci di regalare profonde emozioni. Non ci ha convinto invece ‘A House of Dynamite’ di Bigelow, un film in pieno stile maccartista che cerca di scoprire le reazioni militari e politiche all’arrivo di un missile di provenienza ignota lanciato contro gli Stati Uniti. Un pretesto per tastare il polso a una nazione che deve sempre sentirsi assediata e in guerra contro la mai soppressa minaccia comunista e/o musulmana che affligge le democrazie mondiali, quella a stelle e strisce e quella europea. Film duramente politico che sicuramente piacerà a Trump, non ha la capacità di coinvolgere ed emozionare, anzi risulta prevedibile e povero di idee, come la recita.
Meglio sicuramente, anche se fuori concorso, un altro film statunitense: ‘Dead Man’s Wire’ (Il filo del morto) di un sempre bravo Gus Van Sant, qui alle prese con una interessante storia vera: la mattina dell’8 febbraio 1977, a Indianapolis, Indiana, Anthony G. ‘Tony’ Kiritsis, quarantaquattro anni, entrò nell’ufficio di Richard O. Hall, presidente della Meridian Mortgage Company, e lo prese in ostaggio con un fucile a canne mozze calibro 12 collegato con un ‘dead man’s wire’, un cavo teso che andava dal grilletto dell'arma al collo di Hall. Interessante il motivo dell’azione, e Gus Van Sant, bene lo spiega in questo film, che affronta il dramma con il più umano umorismo: Tony era stato truffato dalla Meridian Mortgage Company, la banca che gestiva il suo mutuo, istituto di credito del quale si era fidato per un investimento che, infine, lo avrebbe portato alla povertà. Spiega il regista: “Abbiamo cominciato a girare il film nel novembre del 2024, e in breve tempo, a mano a mano che il mondo intorno a noi cambiava, abbiamo notato parallelismi inquietanti tra la nostra storia e gli eventi globali in corso. Ciò ha reso il progetto allo stesso tempo attuale e scomodo. Spero che il film non causi troppa angoscia, sebbene riconosca che stiamo vivendo tempi molto difficili, e forse un certo disagio è inevitabile”. E infatti in sala, quando alla fine viene spiegato che la banca era fallita, è scoppiato un lungo applauso. Il film è ben girato e ben interpretato da Bill Skarsgård come Tony e Dacre Montgomery come Hall. C’è anche un ironico Al Pacino nel ruolo del padre di Hall. Interessanti la fotografia di Arnaud Potier e le musiche di Danny Elfman.
Interessante, sempre fuori concorso, il film ‘Broken English’ dedicato da Jane Pollard e Iain Forsyth al ricordo dell’inimitabile cantante, cantautrice e icona Marianne Faithfull, di persona nel film che percorre la sua vita fino al toccante finale con il suo ultimo concerto, dove duetta con Nick Cave. Dicono i registi: “‘Broken English’ è un atto di resilienza e ribellione contro ogni genere narrativo, è l’ultima coraggiosa dichiarazione di Marianne Faithfull, il suo ribelle canto del cigno”. A far da filo conduttore del malinconico e toccante film, una pacata Tilda Swinton. Applausi e commozione alla fine, con la certezza di correre in un negozio musicale per trovare e corre a sentire almeno ‘She walks in beauty’ (2021). Per lei, mito della Swinging London, Mick Jagger e Keith Richards dei Rolling Stones avevano scritto ‘Sister Morphine’.