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Leone XIV, il Papa yankee che non usa l’inglese

Dalla dieta dei cardinali ai gadget improbabili, dai canti a squarciagola alle lacrime: il Conclave che ha sorpreso e commosso Piazza San Pietro

In sintesi:
  • Il menù? Poco vino, niente dolce e dieta uguale per tutti
  • Sacro e profano vanno a braccetto nelle vetrine dei negozi di souvenir
  • “It makes no sense” (“Non ha senso”), dice un giornalista al suo vicino di posto
Globale, vicino ai poveri, promotore di pace
(Keystone)

No, non è Francesco. Anche se lo è stato, per 69 anni e 236 giorni, Robert Francis Prevost. D’ora in poi, e per sempre, Leone XIV. Un nome che segna, se non una frattura, almeno una discontinuità con quello scelto da Bergoglio e da tutti gli altri papi che si sono succeduti dal Novecento in poi. Leone XIII fu infatti l’ultimo a essere eletto, il 20 febbraio 1878, nel XIX secolo. Cosa significherà, lo capiremo presto. Come capiremo, prima o poi, cosa ha spinto i cardinali a scegliere il primo Papa statunitense della storia.


Keystone
Il nuovo Papa

La fumata bianca è arrivata alle 18.07, al quarto scrutinio, quando in molti, in piazza e nelle stanze vaticane non messe sotto chiave, cominciavano a pensare che il Conclave sarebbe durato un altro giorno ancora, passando dalla frase “fuori tutti”, pronunciata mercoledì alla chiusura della Cappella Sistina, al “liberi tutti”. La terza fumata nera avrebbe aperto una nuova fase, quella – per dirla alla Palio di Siena – dei cardinali scossi, dei nomi non previsti, di chi partiva da più lontano, allargando a dismisura il ventaglio dei papabili. Invece i 133 elettori hanno confluito su una delle alternative più solide della vigilia, Prevost, impedendo al favorito, l’italiano Parolin, di diventare il 266esimo successore del suo omonimo Pietro, assegnandogli di fatto lo sventurato ruolo di quello entrato in Conclave Papa e uscito cardinale.

Che non ci fosse generale fiducia in un accordo-lampo lo si era capito già di prima mattina, quando a osservare il comignolo della Cappella Sistina con il naso all’insù c’erano solo poche migliaia di persone (mercoledì sera, per la prima fumata, erano 50mila, ai funerali di Francesco oltre 250mila). Piazza San Pietro si è via via riempita nel pomeriggio, in concomitanza con il rientro in Conclave dei porporati dopo la pausa pranzo a Santa Marta.

La dieta dei cardinali

Il menù? Poco vino, niente dolce (che sarebbe stato servito solo domenica, se il Conclave fosse andato avanti) e dieta uguale per tutti, per evitare preferenze, gelosie e differenze troppo evidenti nello stile di vita, almeno a tavola. Tra i piatti storicamente proibiti: asparagi, ravioli, pollo. Gli asparagi perché, stimolando la diuresi, possono rallentare troppo le operazioni di voto; per i ravioli il divieto è addirittura legato ai messaggi nascosti che si potrebbero nascondere all’interno della pasta. Per questo si preferisce servire spaghetti o penne, più facilmente ispezionabili. Per il pollo, invece, il divieto non è totale (sebbene mai ripieno, per lo stesso motivo dei ravioli). Si può servire solo se completamente disossato, visto il precedente di un cardinale che nel Seicento rischiò di strozzarsi per colpa di un frammento osseo andato di traverso.

Queste restrizioni, a prima vista eccentriche o troppo legate ad aneddoti specifici, che in altre circostanze si sarebbero persi nel tempo, incarnano invece i principi cardine del Conclave: uniformità, controllo assoluto e minimalismo, spirituale s’intende, visto che tutto il resto è invece spettacolare e ridondante, dagli abiti vistosi alla Cappella Sistina, dalle riprese tv con droni e regia cinematografica alle cerimonie pompose e ripetitive (gli “Ora pro nobis” per ogni santo del calendario e il giuramento, sempre identico, in cui a cambiare è solo il nome del cardinale). A conferma di quel che diceva il fotografo Oliviero Toscani, e cioè che la Chiesa ha inventato il marketing globale e il Giudizio Universale di Michelangelo è uno dei più magnifici, potenti e duraturi messaggi pubblicitari creati dall’uomo.

In vendita

Perfino nel negozio ufficiale del Vaticano, accanto alla Basilica di San Pietro, non si smette di reclamizzare i propri prodotti. All’ingresso, vicino alla porta c’era (ma è stato tolto in serata) un enorme cartello con scritto: “Francesco ci parla ancora” e, sotto, la copertina gigante di un suo libro dove campeggiava il volto del defunto pontefice, in quel momento ancora senza erede.

Sacro e profano vanno a braccetto nelle vetrine dei negozi di souvenir, dove un Gesù pop, colorato e sorridente con il pollice alzato si ritrova alla sinistra papa Francesco con la testa molleggiata e alla destra la regina Elisabetta e Marilyn Monroe nella celebre posa con gonna svolazzante di “Quando la moglie è in vacanza”. Il tutto finisce inevitabilmente mescolato nelle borse della spesa di fedeli che alla vita casa e chiesa aggiungono perlomeno lo stadio. Come la coppia del Sud Italia che si presenta alla cassa con due bottigliette d’acqua, una statuetta di Padre Pio, una borsa bianca con la scritta nera STICAZZI tutta in maiuscolo, due calendari di Papa Wojtyla, una manciata di calamite vaticane da frigorifero e una maglia di Dybala taglia bambino palesemente (e malamente) contraffatta.


Roberto Scarcella
Sacro e profano

Come ai Mondiali

In piazza, con l’aumentare delle persone, aumentano anche le bandiere, perlopiù di Paesi latinoamericani (ma si fanno notare anche polacchi, slovacchi e maltesi), su cui spiccano colombiani, ecuadoriani e soprattutto messicani, compresa una famiglia – madre, padre e tre figli, di cui uno nel passeggino – i cui componenti indossano tutti la divisa della loro Nazionale di calcio a Francia ’98, con al centro il disegno di un dio poco cattolico e molto azteco, Tonatiuh. Chiedere ai fedeli armati di maglie, stendardi e bandiere nazionali chi vorrebbero come Papa è inutile: ognuno tifa il suo come se si fosse davvero ai Mondiali di calcio, anche se il cardinale di turno non compare in nessuna lista stilata dai vaticanisti, anche se i bookmaker gli hanno assegnato le stesse quote che assegnerebbero al Liechtenstein che alza la Coppa del Mondo.


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Questione di fede

Gabbiani esibizionisti

In attesa di una fumata che non arriva, i maxischermi della piazza restano puntati sul comignolo dove compare il solito gabbiano esibizionista (c’era mercoledì e c’era – non lo stesso, ovviamente – nel 2013, poco prima dell’elezione di Bergoglio). Poco dopo ne spunta un secondo e infine un terzo più piccolo: un pulcino. La folla s’intenerisce, lasciandosi andare al classico “ooohh” d’ordinanza davanti a un cucciolo, di qualsiasi specie sia, e inizia a scattare foto. Di lì a poco, del tutto inattesa (sembrava troppo tardi per un quarto scrutinio andato a buon fine, troppo presto un quinto, bianco o nero che fosse) arriva la fumata che fa sobbalzare la piazza. La gente urla, canta “Viva il Papa”, si abbraccia. Tantissimi piangono, chi con discrezione, chi a dirotto. Una giornalista di una tv latinoamericana si asciuga le lacrime in diretta, il reporter brasiliano della Gazeta do Povo si mette a urlare nel microfono: “Abbiamo un nuovo Papa. E noi lì dentro abbiamo sette cardinali. Potrebbe essere brasiliano. Ci pensate? Potrebbe essere uno dei nostri”, mostrandosi anche lui tifoso da stadio.


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La gabbianella e la fumata

Le vie attorno al Vaticano vengono prese d’assalto, mentre irrompono sul sagrato le Guardie Svizzere e i carabinieri. Le prime di qua, gli altri di là, come se dovesse iniziare un’enorme partita a scacchi. La banda intona l’inno nazionale italiano e chi sa le parole inizia a cantare a squarciagola “Fratelli d’Italia”, “poropopopopopo” compreso. “It makes no sense” (“Non ha senso”), dice un giornalista al suo vicino di posto. L’altro allarga le braccia e punta il dito verso lo scenario complessivo: le lacrime, i balli, le bandiere la lunga fila di preti appollaiati su un edificio al lato della Basilica, come a dire, senza dirlo: “Cos’ha senso in questo momento?”.


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Emozione incontenibile

‘Annuntio vobis...’

Si aspetta solo lui, il nuovo Papa, che è stato nel frattempo accompagnato nella Stanza delle Lacrime per la vestizione. Quando, oltre un’ora dopo la fumata bianca, alle 19.13, il cardinale protodiacono Dominique Mamberti si affaccia al balcone di San Pietro, esplode il boato della folla. Dopo aver detto “Annuntio vobis gaudium magnum” è costretto a fermarsi per il rumore che arriva dalla piazza. Poi riparte: “Habemus Papam! Eminentissimum ac Reverendissimum Dominum, Dominum Robertum Franciscum, Sanctae Romanae Ecclesiae Cardinalem Prevost, qui sibi nomen imposuit Leonem Decimum Quartum”.

Alle 19.23 è Prevost, visibilmente emozionato, ad affacciarsi dalla loggia centrale della Basilica esibendo un largo sorriso. “La pace sia con tutti voi”, sono le sue prime parole. “Fratelli e sorelle carissimi, questo è il primo saluto del Cristo Risorto, il buon pastore che ha dato la vita per il gregge di Dio. Anch’io vorrei che questo saluto di pace entrasse nel vostro cuore, raggiungesse le vostre famiglie, e tutte le persone, ovunque siano, tutti i popoli, tutta la terra. La pace sia con voi!”.

Poi, dopo un’interruzione dovuta al coro “Prevost, Prevost”, il richiamo, in tempi di guerre che si moltiplicano, a una “pace disarmata e disarmante”: “Questa è la pace del Cristo Risorto, una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante. Proviene da Dio, Dio che ci ama tutti”. “Incondiziamente”, aggiunge, incespicando sull’italiano e sbagliando anche lui a pronunciare una parola, come capitò a Wojtyla, nel 1978, con il suo famoso: “Se mi sbaglio, mi corigerete”.


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Dal balcone più famoso del pianeta


Francesco, lo spagnolo, il Perù

Poi l’omaggio a Francesco: “Ancora conserviamo nei nostri orecchi quella voce debole ma sempre coraggiosa di papa Francesco che benediva Roma! Il Papa che benediva Roma dava la sua benedizione al mondo, al mondo intero, quella mattina del giorno di Pasqua. Consentitemi di dar seguito a quella stessa benedizione: Dio ci vuole bene, Dio vi ama tutti, e il male non prevarrà! Siamo tutti nelle mani di Dio… L’umanità necessita di Lui come il ponte per essere raggiunta da Dio e dal suo amore. Aiutateci anche voi a costruire ponti, con il dialogo, con l’incontro, unendoci tutti per essere un solo popolo sempre in pace. Grazie a papa Francesco!".

Ricorda, infine, di essere un agostiniano (“Sono un figlio di Sant’Agostino”), poi – passando dall’italiano allo spagnolo (“y si me permiten también, una palabra, un saludo”) – ricorda la sua “cara diocesi” di Chiclayo, in Perù, dove Prevost è stato vescovo per otto anni. Proponendosi da subito come un papa americano solo di passaporto: globale, vicino ai poveri, promotore di pace, e che non ha bisogno di usare la sua lingua madre, la più parlata al mondo, per farsi capire e ascoltare dal balcone più famoso del pianeta.