laR+ L’ospite

La candela di Amnesty

Tra le luci che dai primi anni Sessanta del secolo scorso non hanno mai smesso di illuminare i recessi insondabili

(Keystone)
24 aprile 2025
|

Oppositori scomparsi nel nulla, donne lapidate, minoranze perseguitate, diritti negati o irrisi, sentenze delle Corti penali internazionali ignorate dagli stessi governi che le avevano patrocinate: decisamente corrono tempi grami per l’architettura fondata sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, promulgata dall’Onu il 10 dicembre del 1948. Una carta fondamentale, sulla quale sono cresciute, nel tempo, altre dichiarazioni, nella speranza – o nell’illusione – che dopo due devastanti guerre mondiali il genere umano avesse finalmente ritrovato il senno e rinnovato il sogno kantiano di una pace perpetua tra le nazioni.

Niente di tutto questo, come sappiamo. Nonostante gli sforzi e gli appelli, le promesse e le assicurazioni, le relazioni internazionali non si sono mai sganciate dalla dottrina del realismo politico, con poche eccezioni. E tuttavia qualche luce è rimasta accesa, a testimoniare la volontà di non cedere alle politiche di potenza, ove conta non il diritto ma la forza, o alla prepotenza. Tra le luci che dai primi anni Sessanta del secolo scorso non hanno mai smesso di illuminare i recessi insondabili spicca Amnesty International (AI), associazione fondata da un avvocato londinese, Peter Benenson. Costui, apprendendo dai giornali che il governo portoghese di Salazar aveva arrestato e condannato due giovani colpevoli di reato d’opinione, decise ch’era tempo di reagire contro i soprusi e le carcerazioni illegali, i sequestri e le operazioni segrete contro le quali si è battuto fino all’ultimo Dick Marty. Si trattava insomma di recuperare i princìpi della civiltà giuridica, e questo non solo nell’Europa di Cesare Beccaria. Impresa tutt’altro che facile, in un’epoca in cui il mondo era diviso in due sfere inconciliabili: Usa-Urss, capitalismo-comunismo, democrazia-dittatura.

Incunearsi in questa contrapposizione voleva dire sollevare il sospetto di fare il gioco dell’uno o dell’altro, per pregiudizio ideologico o per logiche di schieramento. Rischio che AI voleva assolutamente evitare, pena la perdita di credibilità agli occhi dell’opinione pubblica.

Sull’origine di AI e sulle sue ramificazioni elvetiche si può ora utilmente consultare un bilancio sotto forma di libro promosso dal Gruppo Ticino 48, a cura di Giacomo Müller: “Una voce per i diritti umani. Cinquant’anni di Amnesty International in Ticino (1974-2024)”. L’iniziativa ha impiegato un po’ di tempo prima di mettere radici nel nostro Paese, non senza destare sorpresa da parte di osservatori esteri, che non capivano come mai la patria dell’aiuto umanitario si mostrasse così sorda alla violazione dei diritti umani nel mondo. Colpa della guerra fredda ma anche di una concezione ristretta per non dire meschina della neutralità, sostenuta dagli ambienti che preferivano attendere, non esporsi, manifestare prudenza. Fu così che la Svizzera tergiversò lungamente prima di aderire alle convenzioni internazionali varate dalle Nazioni Unite (per esempio quella riguardante i diritti dell’infanzia).

A fondare la sezione ticinese di AI fu nel 1974 un gruppo di giuristi e di insegnanti, cui seguirono quattro sottogruppi a Lugano, Bellinzona, Locarno e Mendrisio (questi ultimi due non più attivi). Le prime campagne d’informazione e di pressione si proposero di liberare persone incarcerate per motivi del tutto arbitrari o sconosciuti in Cina, Zaire, Algeria, Kazakistan, Tibet. Per liberarle furono intraprese iniziative come l’invio massiccio di cartoline ai governi ritenuti responsabili e l’attivazione di canali diplomatici. Far rumore, alzare la voce, non demordere: questo il metodo di lavoro adottato dall’AI. I successi non sono mancati, anche se di molti casi si sono purtroppo perse le tracce.

Negli ultimi anni, il raggio di attività si è esteso alle comunità minoritarie discriminate per ragioni etnico-religiose e sessuali, nonché alle donne vittime di violenza. Un insieme di questioni che ha trovato nelle aule scolastiche disponibilità all’ascolto e all’impegno.

Un fatto è certo: la luce che Amnesty diffonde tramite la sua candela imprigionata nel filo spinato è destinata a rimanere accesa. Troppe “le aggressioni al diritto e ai diritti” (così il costituzionalista Luigi Ferrajoli) che quest’agenzia continua a registrare in tutti gli angoli del mondo, persino nei Paesi che avevano giurato di mai più introdurre la pena di morte, la tortura, i rapimenti organizzati dai servizi segreti e la deportazione di migranti.