laR+ L’ospite

Israele e noi

(Keystone)

La guerra, le guerre ci interrogano. Ci inseguono, accompagnano le nostre giornate, occupano la nostra mente come un tarlo: Ucraina, Palestina e poi altri conflitti sparsi nel mondo. Gli esperti di geopolitica ne hanno censito una cinquantina. Focolai privi di telecamere e giornalisti, drammi di cui non si ha notizia. Tutti noi reagiamo al traino di emozioni contrastanti. Di fronte all’orrore c’è chi spegne la televisione o cambia canale; e c’è chi preferisce chiudersi nel mutismo. Parlarne con i familiari e con gli amici? Sì, l’abbiamo fatto, abbiamo anche dato una mano agli ucraini fornendo medicinali nei giorni dell’invasione russa. Un popolo che si vorrebbe cancellare, umiliare, svuotare della sua cultura va difeso, non c’è storia. Quando nell’agosto del 1914 le armate tedesche invasero il Belgio, paese neutrale, ticinesi e romandi temettero il peggio. La domanda era: la neutralità ci avrebbe salvato? Oppure no, avrebbe prevalso la violenza, la legge del più forte, del più prepotente? Oggi il Belgio, domani la Svizzera: questo il timore che molti nutrirono in quelle fatidiche giornate, con in prima fila giornali come la Gazzetta Ticinese diretta da Emilio Bossi. I cittadini sono liberi di schierarsi, di parteggiare per l’una o l’altra parte belligerante, si disse allora. Ma questo non valeva per la Confederazione, che invece doveva attenersi alla neutralità come a un’ancora irremovibile. Una neutralità occasionale o intermittente non sarebbe stata credibile.

Tutte queste vicende sono tuttora materia di ricerca e di dibattito. Ma oggi la questione si ripropone. C’è un aspetto che, forse più di altri, investe le relazioni tra il cittadino e lo Stato: fino a che punto le autorità (il governo con i suoi dipartimenti, parlamento, corpo diplomatico) possono ignorare la voce che sale dal basso, dalle piazze, dalle associazioni, da alcune città e da alcuni comuni? Possono permettersi di voltare le spalle a un’opinione pubblica sempre più frastornata, confusa e angosciata, prigioniera di un crescente senso di impotenza? Il Consiglio federale ha giustamente condannato l’aggressione russa all’Ucraina e adottato le relative sanzioni decise dall’Unione europea. Sulla distruzione di Gaza è stato invece molto più reticente; ha preferito assumere una posizione attendista, probabilmente per non esporsi all’accusa di antisemitismo. Meglio aspettare le mosse delle maggiori potenze, meglio la prudenza. Intanto però la gente muore. Bambini, anziani, donne, personale medico e paramedico, giornalisti, con sullo sfondo un numero imprecisato di feriti e mutilati. Si muore anche di fame e di sete, e di infezioni e contaminazioni. Una distesa di macerie e un deposito di odio che rimarrà conficcato nella memoria per generazioni.

Nel novembre del 1915, Leonhard Ragaz, teologo protestante impegnato a riformulare in senso umanitario la neutralità elvetica, tenne un discorso in cui con profondo rammarico prendeva atto di come la Germania guglielmina avesse mutato pelle, indossando panni militari e l’elmetto a punta: “Da qualche decennio, la Germania che abbiamo di fronte non è più quella di una volta, ma una Germania nuova e del tutto differente”. Lo stesso si potrebbe dire oggi di Israele, piccola nazione che a lungo ha saputo affermarsi nel vicino Oriente come unico regime democratico senza farsi sopraffare da “un’ira furente” incontrollata, affidata soltanto al linguaggio delle armi. Questa Israele è diventata irriconoscibile, come la Germania imperiale descritta da Ragaz durante la Grande Guerra.

C’è la possibilità che ritrovi la retta via, senza farsi trascinare nel baratro, senza perdere l’anima? Questo è l’auspicio di tutti coloro che sostengono il diritto di Israele a esistere e a difendersi, ma a condizione che si tenga lontano dall’ira achillea, generatrice di lutti e barbarie. Aiutare il governo di Israele a uscire dalla trappola mortale tesagli da Hamas dovrebbe anche figurare tra i compiti precipui del Dipartimento degli affari esteri e della nostra diplomazia. Perché una neutralità silente o balbettante non è degna del nostro Paese.