Con quello che sta succedendo nella striscia di Gaza l’essere umano è riuscito ancora una volta ad esprimere i propri istinti più bassi in modo assolutamente violento e incivile, utilizzando come supporto tecnologia e credenze religiose per fini assolutamente inaccettabili. Dal disgraziato e parimenti inaccettabile attacco del 7 ottobre del 2023 si è sviluppata una reazione che è andata ben oltre la classica legge del taglione. Un governo composto in parte da fanatici religiosi e da un leader che sta concludendo in modo infame la propria traiettoria politica usa il comodo alibi di voler sradicare Hamas per farla finita una volta per tutte con la popolazione palestinese. Sulla base di queste considerazioni, è quindi appropriato parlare di genocidio, che, vale la pena ricordarlo, non è un concetto ad esclusivo uso e consumo del popolo ebraico (si veda ad esempio il caso degli armeni).
La situazione venutasi a creare affonda le proprie radici nelle politiche estere passate (ma anche in quelle presenti) dei paesi occidentali. Dopo gli orrori della seconda guerra mondiale, le Nazioni Unite proposero di suddividere la Palestina, al momento sotto controllo inglese, in due stati, uno a maggioranza ebrea e l’altro palestinese. Tale soluzione fu motivata, oltre che da calcoli politici, anche dalla più nobile considerazione di offrire agli ebrei una sorta di compensazione per gli orrori nazisti e mettere in atto una risposta concreta all’antisemitismo, dando così luce verde al sogno di uno stato israeliano prospettato fino dall’Ottocento dal movimento sionista. L’unico problema fu che a pagare il conto vennero chiamati i palestinesi, che, dopo il dominio ottomano e inglese si videro ancora una volta negare il diritto di gestire autonomamente la Palestina nel suo complesso. Ricordiamo che, al tempo in cui venne sviluppata la proposta, i palestinesi costituivano circa i 2/3 della popolazione residente. Essi rifiutarono il compromesso proposto, e cercarono appoggio presso i paesi arabi. Questi attaccarono Israele il 15 maggio del 1948, ricavandone la prima di una serie di brucianti sconfitte e di ulteriori occupazioni di territori da parte dello stato ebraico, al di fuori di quanto stabilivano le risoluzioni dell’Onu.
Vi è poi un altro fattore che occorre considerare: per le potenze occidentali e per una parte degli israeliani la costituzione di Israele consiste essenzialmente nella creazione di uno stato indipendente, moderno e democratico, mentre per molti altri cittadini Israele altro non è che la terra promessa. Nei fatti, non ha senso opporsi a qualcosa, finché rimane argomento di fede; tuttavia, quando tali convinzioni diventano dogmi inappellabili che conducono a comportamenti moralmente inaccettabili, è importante limitarne le conseguenze. La creazione del grande regno di Israele mediante l’eliminazione dei palestinesi, auspicata esplicitamente dai partiti religiosi (e condivisa in modo silente da un buon numero di altre persone) non è qualcosa che il mondo democratico possa accettare, come è il caso per ogni episodio di pulizia etnica.
È chiaro che oggi lo stato di Israele è ormai una realtà consolidata, per cui non ha ormai più senso, come vorrebbero i più estremisti tra i palestinesi – fautori di un annientamento dello stato ebraico – pretendere di tornare alla situazione pre-1948. D’altro canto, ogni possibile soluzione non può fare a meno di passare attraverso una via costituzionale che sappia coniugare sicurezza e libertà per tutte le popolazioni dell’area e che comprenda anche la restituzione dei territori occupati al di fuori del mandato Onu, risolvendo in pari tempo la questione dei coloni. Per poter procedere su questo cammino, tuttavia, è necessario in primo luogo che l’attuale governo israeliano cada e che vengano liberati i leader palestinesi in grado di esercitare una vera leadership nella creazione di uno stato palestinese, come ad esempio Marwan Barghuthi.
Nel contesto della cruenta situazione venutasi a sviluppare, stupisce il fatto che le comunità ebraiche presenti in Europa e negli Stati Uniti, pur nella pienamente condivisibile e ferma condanna dell’antisemitismo che purtroppo sta rialzando la testa, non si siano però in genere dissociate, perlomeno da un punto di vista umanitario, da quanto sta accadendo a Gaza, dando così una (probabilmente errata) impressione che esse condividano del tutto quanto sta facendo Netanyahu. Purtroppo, questo silenzio non fa altro che portare ulteriore sostegno a chi esprime argomentazioni antisemite.
Infine, sorprende la posizione della Svizzera sulla questione. Neutralità e valori democratici contraddistinguono la Svizzera nel mondo. Questi ultimi non dovrebbero però solo essere espressi formalmente, ma risultare in posizioni politiche congruenti: in caso contrario, sorge il sospetto che la neutralità altro non sia che uno scudo per argomenti di puro opportunismo.