Penso spesso a tutti gli insegnanti, di ogni ordine e grado, che resistono, in questa epoca non di certo epica – certamente ce ne sono state di peggiori ma questa non è una favola – e a tutti quei docenti che sono diventati più degli eroi che dei veri e propri dispensatori del sapere. Sono quei lavoratori sacrificati in un contesto sociale fragile, che richiede loro strumenti sempre più sofisticati; sottoposti come sono a pressioni psicologiche, logorati dalla composizione di classi multietniche, e da una pluralità di culture, che impongono capacità di adattamento, sia agli allievi sia al corpo insegnante. Negli ultimi anni numerosi sondaggi hanno evidenziato un aumento di burnout tra i docenti, perché immersi in una realtà in cui vengono spesso messi in discussione, raramente valorizzati. Il carico di lavoro, soprattutto quello immateriale difficilmente quantificabile, si rivela un impegno che non viene riconosciuto. Come in molti ambiti lavorativi c’è chi non è all’altezza ma questo non può delegittimare e condannare un’intera categoria che è esposta a condizioni sempre più avverse. Viviamo in una collettività iperconnessa, che ha smarrito il senso del ruolo, che calpesta l'autorità solo perché detta le regole. Una società schizzofrenica, stratificata, complessa, governata da leggi che non si rispettano e da modelli che vengono rovesciati. Se davvero fa notizia il padrone che morsica il cane ancor più deve preoccupare e allarmare uno studente che, in classe, perde di rispetto e aggredisce il suo insegnante, con il rischio di essere denunciato dalla famiglia perché il voto della verifica non è gradito.
Il compito fondamentale di chi insegna è lasciare un segno, perché l’insegnante è colui che imprime, trasmette non solo nozionismi ma anche conoscenza, in grado di tracciare solchi nella memoria degli studenti, nella vita della scuola, che non possono essere scissi dall'impronta umana. Anche il docente, dal latino “docens docentis”, è a sua volta colui che insegna. Ma se i docenti e gli insegnanti vengono svuotati di senso, esautorati dal compito istituzionale, acquisito in anni di studio, a pagarne le conseguenze è la società, che inevitabilmente sprofonda in una spirale fallimentare, un po’ come se si tagliasse il ramo su cui si è seduti. Sono spesso privati di uno spazio temporale da dedicare al compito educativo e riflessivo perché educare, dal latino educere, tirar fuori, permette di far emergere le potenzialità dei ragazzi e dei giovani. Ma se manca il tempo, se si rinuncia alla dimensione dialettica, anche l’essenza dell'educazione si indebolisce.
Dalle scuole medie alle università il bullismo è una realtà in espansione, così come la droga entra nelle classi come fragilità diffusa, mentre i giovani sono alterati dagli effetti delle nuove dipendenze, come i social o le tecnologie. Sono realtà preoccupanti che indirettamente compromettono l’istituzione scolastica, che dovrebbe essere nervo, cuore e anima di una società, sempre più disorientata, priva di riferimenti e in perdita di valori. Sono di parte perché sono stata una docente poi diventata giornalista. Ho conosciuto gli ingranaggi della scuola, le famiglie, le esigenze degli allievi, e l’ingerenza e le pressioni delle varie autorità scolastiche. Tra l’insegnamento e il giornalismo la differenza sta nel fatto che avendo frequentato tutti la scuola ci si sente autorizzati e legittimati a criticarla, con la pretesa di avere una scuola che soddisfi le esigenze individuali e personali di ognuno, dimenticando che in gioco c’è un’emergenza educativa che concerne tutti.