In una mia recente intervista alla Rsi ha colpito alcuni telespettatori la frase “questa partita non è solo per Gaza, ma sono in gioco i valori dell’Occidente”. Non c’era tempo per spiegare meglio. Gaza evidentemente non è una partita, e la metafora aveva quale scopo quello di sciogliere il dilemma tra neutralità e azione: un arbitro deve essere neutrale (non parteggiare per nessuna delle due squadre), ma deve fischiare un fallo se qualcuno lo commette, sennò fa male proprio il suo lavoro di arbitro. Oggi abbiamo in campo un criminale di guerra (Netanyahu) e un bullo che lo sostiene (Trump), e con le Convenzioni di Ginevra abbiamo tutti accettato di rispettare le regole, assumendoci il ruolo di arbitri verso chi non le rispetta. E qui l’analogia deve finire, perché continuarla diventerebbe irrispettoso per tutte le vite perdute e rovinate nei diversi conflitti.
Ma è sul fatto che sono in gioco i valori dell’Occidente che vorrei soffermarmi. Perché Gaza, e più in generale questo momento sono particolari? In fondo, Gaza pesa “solo” due milioni di persone, meno che il Sudan, per esempio, dove la situazione è catastrofica da anni. Qui le ragioni: le violazioni del diritto umanitario (non stiamo a elencarle, e non soffermiamoci su quelle di Hamas, organizzazione terrorista dalla quale non è lecito aspettarsi niente, né desiderare altro che la scomparsa), sono compiute da un Paese nostro alleato. Un Paese che rivendica i nostri stessi valori (come il rispetto delle comunità Lgbt in Israele), la stessa storia; che è dotato delle migliori scuole, università, tecnologia e scienza. In misura pur variabile per ciascuno, possiamo dire che Israele siamo noi.
Il genocidio (vedi le dichiarazioni dello scrittore David Grossman, o il rapporto della Ong israeliana Physicians for Human Rights) si sta compiendo sotto i nostri occhi. Un immenso ghetto di Varsavia, ma del quale non potremo dire che non sapevamo, o che Hitler ci circondava. Tutto questo con la sfacciata complicità della Casa Bianca, che afferma di voler fare di Gaza una spiaggia turistica, una vergognosa enormità. Che si siede a cena con un criminale di guerra, in disprezzo del mandato di cattura della Corte penale internazionale. E che avalla l’esautorazione di organizzazioni internazionali già esperte nell’aiuto umanitario per favorire una discutibile fondazione privata (che brutta figura per il Dfae di non essersi subito unito alle voci contrarie, e di non essersene poi scusato). Facile sarebbe dire che gli Usa hanno tirato giù la maschera, e che è sempre stato così. Non credo: vi è una natura differente tra la colonizzazione del capitalismo imperialista del Vietnam e l’insolente spregio della giustizia e della realtà fattuale di oggi.
Quanto sopra mostra al mondo cosa i governi europei sono realmente disposti a fare affinché le violazioni cessino e vengano punite, le complicità condannate, e si ristabiliscano i valori comuni alle migliori destre e sinistre politiche, di verità, diritto e rispetto, che fanno la trama del nostro tessuto sociale. La triste risposta è: per ora, sostanzialmente, non sono disposti a fare niente. Una boccata di ossigeno è forse venuta da Macron, e pure da Starmer, disposti a riconoscere lo Stato di Palestina. La reazione di Trump “tanto quello che dice Macron non conta niente” è una medaglia che vorrei vedere sul petto del capo del nostro Dfae. E come mi appaiono più onorevoli i dazi del 50% del Brasile di Lula, che sa tener testa, rispetto ai nostri, sostanzialmente equivalenti.
Non reagendo a quello che succede sotto i nostri occhi, spegniamo la speranza di tutte le persone vittime di sistematiche ingiustizie che hanno riposto fiducia in quello che, come Occidente, abbiamo voluto o preteso essere, o che abbiamo rappresentato nella storia (l’Inghilterra di Dunkerque, l’Italia e la Francia della Resistenza e della Costituzione, e la Svizzera delle Convenzioni di Ginevra).
Tutti i punti precedenti mostrano, in modo evidente e doloroso, lo stato di malattia delle nostre democrazie (Netanyahu e Trump sono stati regolarmente eletti, come pure i governi che ci rappresentano). Una malattia che ci impone delle riflessioni sulle diagnosi e su come curarla. Penso che al mondo ci siano ancora dei potenziali Gandhi, Mandela, o degli Einaudi, ma perché non riusciamo più a farne dei leader politici?
Anche se è molto tardi, forse si può ancora uscire dal tunnel cognitivo che ci impedisce di vedere che oggi a Gaza, e più in generale nel mondo, è in atto la svendita dei valori del miglior Occidente: non si tratta di cose né oscure né difficili. Mi auguro che il sacrificio di tante vite a Gaza sappia finalmente aprirci gli occhi, in particolare quelli delle più giovani generazioni, su ciò che dobbiamo fare. Da subito, recuperando dignità e umiltà: scusarci e cambiare rotta.