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Identità di genere, basta con l’attivismo

(Ti-Press)

Da quasi dieci anni, il tema dell’identità di genere – e degli interventi medici che puntano a “modificare” il sesso attribuito alla nascita – è al centro di discussioni scientifiche e dispute politiche a livello internazionale. Nella sua edizione del 19 agosto, laRegione ha dedicato al tema un approfondimento di due pagine in cui hanno preso la parola, senza contraddittorio, tre personalità (un operatore di Zonaprotetta e due medici) che si sono schierati a favore dell’approccio ‘affermativo’. Secondo questa visione – molto in voga attorno al 2020, e che in Svizzera ha ad esempio ispirato le politiche del Canton Vaud – il compito delle autorità, mediche e scolastiche, è di assumere un’attitudine “affermativa” a proposito del sesso al quale le persone dicono di appartenere. Con tanti saluti alla biologia. La stessa politica federale, quando ancora il tema era poco noto e dibattuto, si era allineata a questa posizione allentando le regole per gli interventi medici di ‘riassegnazione’. Il risultato è che queste pratiche, molto invasive e irreversibili, dal 2018 a oggi si sono moltiplicate da una manciata di casi a oltre 300 (!) all’anno, allarmando tutti quegli specialisti che non si riconoscono nel paradigma ‘affermativo’ e invocano una maggiore prudenza.

Siccome non ho una formazione scientifica, non intendo discutere in dettaglio le affermazioni dei medici interpellati da laRegione. A questo proposito, mi limito a consigliare la lettura del dettagliato articolo ‘Transizione di genere: alcuni dati allarmanti’, dell’endocrinologo Fabio Cattaneo, apparso sull’ultimo numero di ‘Tribuna medica ticinese’. Quel che mi importa, come politico, è invece di rispondere all’accusa subdola che – come è ormai purtroppo la regola in questo dibattito – serve a difendere le procedure mediche di “riassegnazione”. Mi riferisco all’affermazione secondo cui il non procedere a questi interventi, invasivi e irreversibili, provocherebbe un aumento del rischio di suicidio. In sostanza, l’accusa (neanche tanto velata) rivolta a chi come me mette in discussione l’approccio ‘affermativo’ è di provocare un aumento dei suicidi, o quantomeno di accettare cinicamente questo rischio. Si tratta di uno stratagemma retorico certamente d’impatto – che divide in modo molto conveniente il campo fra i sedicenti “buoni” e i presunti “cattivi” – ma che non ritrova un riscontro solido nelle evidenze disponibili. La letteratura scientifica più recente mostra, infatti, che la disforia di genere negli adolescenti è nella maggioranza dei casi associata a comorbidità psichiatriche rilevanti che ne precedono o accompagnano l’insorgenza. I dati provenienti da ampi studi di popolazione e da analisi longitudinali evidenziano che il rischio suicidario è paragonabile a quello di coetanei affetti da disturbi psichiatrici e non risulta significativamente ridotto in seguito a interventi medici di transizione. Questi risultati, confermati anche da revisioni sistematiche, non supportano la narrazione secondo cui i trattamenti “affermativi” costituirebbero una forma di prevenzione del suicidio. Al contrario, le evidenze scientifiche invitano alla prudenza, soprattutto nel trattamento dei minorenni: la presa a carico dovrebbe basarsi su una valutazione psichiatrica approfondita e su un accompagnamento multidisciplinare, piuttosto che su interventi medici invasivi – inclusi i bloccanti della pubertà – i cui effetti a lungo termine restano tuttora incerti.

Checché ne pensi il fronte degli attivisti, con e senza camice, di questo tema la politica continuerà a occuparsi. Gli sviluppi internazionali, del resto, indicano un chiaro ripensamento da parte di quegli Stati che, negli scorsi anni, si erano lasciati sedurre da una certa euforia ideologica. Nel parlamento cantonale sarà presto presentata un’iniziativa che chiede di fissare regole chiare, a protezione dei minorenni, come quelle che altri Cantoni hanno introdotto o stanno prendendo in considerazione. Confidiamo in un ampio sostegno, anche da parte di quei medici che hanno giurato, per prima cosa, di “non nuocere”.

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