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Il celibato dei sacerdoti

(Ti-Press)

Homo sum: humani nihil a me alienum puto (sono un uomo: nulla di ciò che è umano mi è estraneo). Con questo spirito, anche il problema del celibato ecclesiastico, inteso in senso ampio e riguardante tutto il clero di ogni religione, merita una riflessione profonda e sincera, poiché tocca aspetti umani fondamentali, oltre che sociali e spirituali. Per di più, in un tempo in cui la figura del sacerdote è particolarmente esposta alla luce pubblica. È quindi doveroso confrontarsi con il ruolo che essa svolge nella società e con le responsabilità che ne derivano.

Preliminarmente, è opportuno ricordare che l’ultimo papa sposato, Adriano II (792-872), visse nel Laterano con la moglie Stefania e la figlia senza suscitare, all’epoca, particolari dibattiti dottrinali, malgrado la tragedia familiare che lo colpì. Diversi papi erano figli di preti o di vescovi e, nell’Antico Testamento, il matrimonio era previsto e persino richiesto per i sacerdoti. Fu solo nel 1059 che, con i decreti di un sinodo celebrato a Roma, si diede avvio a una svolta decisiva: per la prima volta, la riforma gregoriana colpì direttamente il clero sposato minacciando la sospensione “a divinis” e l’espulsione. Questa scelta segnò l’inizio di una nuova concezione della Chiesa: più spiritualizzata, distinta dal mondo laico e fondata su una disciplina rigorosa. Tuttavia, il problema del celibato era tutt’altro che pacifico: si discuteva, ad esempio, se le messe dette da preti sposati fossero valide o se i battesimi e i matrimoni da loro celebrati dovessero essere ripetuti.

Per oltre un secolo le due tesi, pro o contro il celibato, si confrontarono, talvolta vigorosamente, ma nel Concilio di Poitiers del 1078 prevalse la linea del celibato obbligatorio. Le conseguenze non furono lievi: si ebbero difficoltà nel reclutamento del clero, con la necessità di affidare molte parrocchie agli ordini monastici e la progressiva scomparsa dei canonici delle cattedrali e delle collegiate, in quanto sposati e che spesso rappresentavano la parte colta del clero. La disciplina del celibato, benché non costituisca un dogma, è rimasta sostanzialmente immutata fino a noi. Diversi furono i tentativi di riforma avanzati (taluni strani, come il matrimonio casto). Inutilmente perché la norma si era consolidata grazie alla costrizione, benché il “compelle intrare” (ossia il riportare il trasgressore all’ortodossia), in ambito spirituale, sia assurdo. Comunque, la disputa continuò con seri argomenti di sapienza spirituale e di ricchezza umana da ambo le parti.

In definitiva, semplificando, il dilemma è stato e rimane uno scontro contro “la divina chiamata al sacerdozio che separa dagli altri uomini l’Alter Christus”. I contrari al celibato opponevano e oppongono argomenti che giova menzionare: gli apostoli, i primi “chiamati”, erano sposati; Dio non ha creato alcuna delle membra del corpo umano invano, ma ciascuna a ragione della sua utilità; la sessualità è un dono di Dio, per cui anche il sacerdote può beneficiarne; il comando biblico “crescete e moltiplicatevi”; l’assurdità secondo cui il matrimonio sarebbe puro per i laici e impuro per i sacerdoti; il celibato, per natura, suscita la dissolutezza, tanto è vero che San Paolo, il grande dei grandi Santi, oggi apprezzato anche dai filosofi laici, ha redatto chiaramente le leggi del sacerdozio, per cui avrebbe potuto inserire in questo codice il divieto ai sacerdoti di avere delle spose, invece si contentò di dire: “Io preferisco che tutti siano come me, ma per evitare le dissolutezze ogni uomo abbia la sua moglie e ogni donna il suo marito”; il concetto secondo il quale nessun reato è talmente grave che non si debba ammettere per evitarne uno peggiore, ripreso dai filosofi fra i quali anche S. Agostino (e lui la sapeva lunga).

Oggi l’abuso di donne e uomini, specie giovani, si è acuito ovunque e in ogni ceto, si può dire; e il fatto che tra i carnefici vi siano anche sacerdoti allarma ovviamente le istituzioni secolari, ma soprattutto la Chiesa e i credenti. Allora, quale soluzione ragionevole s’impone, poiché la convivenza sociale, soprattutto per problemi delicati e aspri come questo, sia pacifica e armoniosa. Ecco cosa, da profano, penso: nella mia lunga attività professionale ho patrocinato, ora il marito ora la moglie, in più di trecento divorzi, ciò che mi ha consentito di osservare da vicino le difficoltà che possono emergere nella vita coniugale. Queste difficoltà, evidentemente, potrebbero sorgere anche nel clero sposato: tensioni familiari, conflitti tra doveri ecclesiastici e dinamiche domestiche, amicizie non gradite o infedeli. Tutto questo, specie nelle piccole parrocchie, solitamente esce dall’intimità domestica, suscitando l’ironia o, peggio ancora, lo sconcerto tra i parrocchiani a scapito della reputazione della Chiesa. Ebbene, ciononostante preferisco la moglie infedele o che critica il marito pubblicamente e pretende di dire la Messa, o almeno l’omelia, piuttosto che il tetro spettacolo di un sacerdote dissoluto che distribuisce l’ostia consacrata (quello che dà, ovviamente, rimane quello che è), ma con delle mani indegne di dare.

E pensare che se il celebrante avesse una moglie, situazioni come queste potrebbero essere evitate (forse anche nel recentissimo caso giudiziario che ha inferto dolore nelle vittime e nei loro familiari). Quindi il matrimonio deve prevalere sul celibato: la natura e la ragione lo vogliono: quindi per il credente, anche Dio lo vuole. È vero che la millenaria figura del sacerdote celibe è radicata nella coscienza collettiva e i cambiamenti in questi ambiti richiedono molto tempo. Tuttavia oggi è forse giunto il momento del coraggio, suscitato da una profonda carità di fronte alle fragilità umane, di rendere il celibato facoltativo.