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Quando il dire e il fare si contraddicono

(Ti-Press)

Nei giorni scorsi sono stati pubblicati vari articoli e lettere di lettori/lettrici dedicati al processo relativo a don Rolando Leo. Non posso ovviamente rispondere singolarmente a tutti in queste poche righe. Merita tuttavia una risposta quantomeno il contributo di Angelica Lepori (laRegione del 22 agosto), già deputata Mps in Gran Consiglio, come l’interessata ha tenuto a precisare. Nell’articolo, che si configura come un “testo a tesi”, l’autrice parte esprimendo inquietudine, rabbia e indignazione per la sentenza emessa a carico dell’imputato, considerata troppo mite. Dichiara inoltre il suo sgomento per la motivazione addotta dal presidente della Corte a giustificazione della stessa, in particolare laddove i fatti imputati sono stati definiti tra “i meno gravi”. Spiega poi che non è possibile stabilire una gerarchia, poiché ogni molestia/violenza è, a prescindere dal suo “grado”, una violazione della dignità, dell’integrità e della libertà delle vittime. Prosegue, sostenendo che, come avviene sovente nei casi di violenza contro le donne, si sia cercato di minimizzare i fatti e di ribaltare la responsabilità sulle vittime, incorrendo così nella cosiddetta vittimizzazione secondaria. Un modo di agire, annota l’autrice, che ha l’effetto di mettere a tacere le eventuali altre vittime, che andrebbero invece ascoltate, protette e credute. Conclude, dicendo che la sentenza rappresenta un grave segnale di “regressione politica e morale” che, come sarebbe dimostrato dalle sue vicende interne, ha investito alcuni dei giudici del Tribunale penale cantonale (Tpc) e costituirebbe un’ulteriore dimostrazione di come ormai l’influenza politica (di cui la Chiesa sarebbe tuttora un fattore importante) pesi nella realtà dell’amministrazione della giustizia in Ticino. In sostanza, da una critica alla commisurazione della pena l’autrice passa a esprimere un giudizio politico e morale sui giudici del Tpc e a tacciare l’amministrazione della giustizia ticinese di essere succube della politica e della Chiesa. Se le premesse sono discutibili, le conclusioni sono inaccettabili.

Sulla commisurazione della pena sono stati scritti libri e commentari. È una valutazione complessa anche per gli specialisti, che presuppone di prendere in considerazione numerosi fattori e di fare paragoni e distinguo con altri casi più o meno analoghi. Criticare a caldo una pena ritenuta troppo mite, senza conoscere in dettaglio l’incarto e senza confrontarsi con i presupposti legali e giurisprudenziali, non ha alcun senso. Si rischia soltanto di esprimere aspettative soggettive e astratte, come quelle che reclamano una pena esemplare o una pena che prescinda dalla scala di gravità del comportamento da giudicare, che nulla hanno a che fare con la giustizia. A maggior ragione che nel caso concreto vi sono, in teoria, due ulteriori gradi di giudizio, per cui si tratta – se davvero si vuole sottrarre la giustizia all’influenza politica – di preservare pure le istanze superiori dalle attese della politica o della piazza.

Grave, oltre che gratuito, è anche il rimprovero generalizzato di regressione politica e morale rivolto a (chi?) dei giudici del Tpc, di cui la controversa sentenza sarebbe segnale. A prescindere che non è dato di capire quale significato attribuire al termine di “regressione politica” in un contesto dove si imputa ai giudici proprio la mancanza di indipendenza dalla politica, tale rimprovero si palesa proprio per il contrario di quello che pretende di essere, ossia come un atto di interferenza politica: se tu giudice pronunci una sentenza a me non gradita, allora sono in discussione le tue qualità politiche (?) e morali. Si tratta di un messaggio oltremodo pericoloso, che non può essere accettato in uno Stato di diritto basato sulla separazione dei poteri. Conoscendo il presidente della Corte, che vanta lunga esperienza in ambito penale, dapprima come magistrato inquirente e da oltre 10 anni come giudice, sono peraltro certo che la politica e la Chiesa non hanno avuto il benché minimo influsso sulla sentenza in discussione. Prendendo il suo giudizio per farne la (ulteriore?) dimostrazione di una pretesa sudditanza della giustizia ticinese alla politica e alla Chiesa, l’autrice dell’articolo fa opera di mistificazione e contraddice invero soltanto se stessa: si fa artefice di una pressione che a parole dichiara di denunciare.

Pretestuoso appare pure l’accenno alle “vicende interne” al Tpc, che a dire dell’autrice avvalorerebbero la tesi della “regressione politica e morale” dei giudici, dato che non si vede il nesso con la sentenza criticata. Di quei fatti si è peraltro occupato il Consiglio della magistratura, i cui provvedimenti sono tuttora sottoposti all’esame del Tribunale federale.

L’indipendenza della giustizia, sancita dalla Costituzione federale e da quella cantonale, è cosa seria, soprattutto di questi tempi, e troppo importante per farne strumento di promozione personale o politica. Come mette in guardia un autorevole penalista (prof. Nicolas Queloz), se un politico delegittima pubblicamente l’autorità giudiziaria, non può che favorire il populismo.