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Dostoevskij e la pena di morte

16 luglio 2025
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Il rapporto tra diritto e filosofia si svela nella sua più autentica profondità quando attraversa il respiro della letteratura. L’opera di Dostoevskij, in particolare L’Idiota (1868), rappresenta una fessura luminosa da cui osservare il logos della legge nell’ora più cupa: quella in cui essa si arroga il diritto di togliere la vita.

Nel celebre passo in cui il principe Myskin racconta l’esecuzione del condannato Legros, l’orrore non risiede tanto nell’atto della morte quanto nella coscienza lucidissima del momento esatto in cui l’anima si separa dal corpo. È l’attesa disumana – la certezza matematica della fine – che annienta il morituro. Myskin denuncia così una verità spiazzante: l’omicidio su sentenza, legalmente strutturato, è incomparabilmente più atroce dell’omicidio del reo, perché nega ogni residuo di speranza e restituisce l’uomo alla pura meccanica dell’eliminazione.

La filosofia del diritto si è confrontata con questa frattura morale. Hegel vede nella pena capitale la logica negazione del crimine stesso; Kant, con rigore adamantino, la eleva a dovere morale; Simone Weil la riveste di un’aura sacrificale. Eppure Beccaria, con lucidità illuminista, ne smaschera l’inutilità e la barbarie. Camus, in un’indimenticabile riflessione, denuncia l’inganno dell’esemplarità e l’inquietante fascinazione esercitata dalla morte di Stato.

Letto alla luce dell’art. 10 della Costituzione svizzera del 1999, questo dibattito rivela come il diritto per non smarrire la propria umanità debba restare in ascolto della filosofia e della letteratura. In Dostoevskij, la legge torna a farsi coscienza e il diritto s’illumina di verità: hominum causa omne ius constitutum est.