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‘La centralizzazione dei capitali sta fomentando le guerre’

L’analisi del professore Stefano Lucarelli, ospite dell’incontro ‘Le condizioni economiche per la pace’ al Festival della Scuola cantonale di commercio

‘La Cina è divenuta il grande creditore degli Usa che hanno allora svoltato dal liberoscambismo al protezionismo’
(Imago)
26 aprile 2025
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«L’evidenza scientifica supporta una “legge” di tendenza verso la centralizzazione del capitale che distrugge la democrazia e fomenta la guerra». È questa, ci spiega Stefano Lucarelli – professore di politica economica presso l’Università degli studi di Bergamo – la tesi da cui prende le mosse il libro ‘La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista’, di cui è coautore assieme a Emiliano Brancaccio e Raffaele Giammetti. Ospite a Bellinzona del Festival dell’economia organizzato dalla Scuola cantonale di commercio – quest’anno dedicato al tema ‘Dialogo in tempo di guerra’ – Lucarelli interverrà lunedì 28 aprile (alle 18.30 nell’auditorium dell’istituto) in un incontro dal titolo ‘Le condizioni economiche per la pace’, affiancato da Sergio Rossi, professore ordinario di macroeconomia ed economia monetaria presso l’Università di Friborgo, con la moderazione del direttore de ‘laRegione’ Daniel Ritzer. Lo abbiamo intervistato.

Professor Lucarelli, la centralizzazione dei capitali è un aspetto cardine nelle sue analisi – tra cui quelle confluite nel libro ‘La guerra capitalista’ – relative all’attuale contesto geopolitico. Come si delinea questo processo?

Man mano che i mercati internazionali si aprono, la concorrenza fra capitali conduce a un esito molto diverso da ciò che viene auspicato dai modelli teorici mainstream: la proprietà azionaria parcellizzata e diffusa tra molti viene sottoposta al controllo di fatto di pochi. Questo esito – misurato statisticamente per diversi Paesi per il periodo 1998-2019 con un indice (il net control) che descrive il valore intrinseco del capitale controllato seguendo tutti i percorsi diretti e indiretti delle partecipazioni azionarie – si accompagna a una tendenza protezionistica da parte del Paese che più subisce i tentativi di controllo dei capitali provenienti da chi ha maturato maggiori surplus commerciali. Si pensi a ciò che accadde nel 2005 quando la China National Offshore Oil Corporation si fece avanti per acquistare la californiana Unocal, o all’acquisto di Centrica da parte di Gazprom.

A questo proposito lei sostiene che la dinamica degli squilibri macroeconomici tra Paesi debitori capitanati dagli Stati Uniti e Paesi creditori guidati dalla Cina – in cui riconosce due poli imperialisti – ha portato all’acuirsi delle tensioni politiche. Può articolare?

La Cina è il vero vincitore del processo di globalizzazione. Il processo di centralizzazione dei capitali si accompagna a uno sbilanciamento nei rapporti di credito e debito tra i diversi capitalismi nazionali. Il Dragone è divenuto il grande creditore degli Stati Uniti. Quando una potenza egemone, debitore verso l’estero, come gli Stati Uniti, dopo aver aperto i mercati, decide all’improvviso di cambiare l’ordine delle regole del gioco, svoltando dal liberoscambismo al protezionismo in modo unilaterale, a livello mondiale si apre una contesa. Questo sbilanciamento procede di pari passo con una dinamica asimmetrica delle bilance dei pagamenti e delle posizioni nette sull’estero nelle diverse aree del mondo. E si riscontra qualcosa di ancor più sconcertante: le spese militari sembrano crescere man mano che cresce il divario nelle posizioni nette sull’estero fra i Paesi creditori e i Paesi debitori. L’imperialismo del grande debitore e dei suoi alleati si manifesta con l’acuirsi di dazi e sanzioni crescenti verso quei Paesi che di fatto mettono in discussione gli assetti gerarchici che la globalizzazione immaginata all’inizio del millennio avrebbe dovuto invece consolidare. L’imperialismo dei Paesi creditori, non solo la Cina, ma anche la Russia e altri Paesi riconducibili ai BRICS+, si manifesta in modi diversi: si va dall’aggressione di tipo militare (è questo il caso dell’azione russa in Ucraina), a un controllo territoriale al di fuori dei confini nazionali che sviluppa rapporti di forte dipendenza politica (si pensi all’azione della Cina negli Stati africani in cui avviene l’estrazione delle terre rare).

La guerra in Ucraina è dunque da interpretare a suo giudizio non come uno scontro di civiltà ma come un conflitto con radici nelle contraddizioni di un sistema economico globale deregolamentato, legato a dinamiche di competizione tra i due blocchi sopracitati?

La guerra in Ucraina può essere spiegata a partire dall’esigenza di riorganizzare le relazioni internazionali manifestata dagli Stati Uniti. Il friend-shoring occidentale, per usare l’espressione introdotta dall’ex segretario di Stato Janet Yellen, rappresenta una difesa contro i rischi di una centralizzazione del capitale a guida cinese. Una guida cinese che, attraverso il consolidamento delle relazioni economiche fra i BRICS+, si sta traducendo in un dominio evidente non solo nei settori manifatturieri tradizionali, ma anche nelle forniture delle materie prime necessarie a sviluppare il paradigma tecnologico futuro. I Paesi dell’Unione europea sono stati per circa un decennio dei partner fondamentali sia della Cina che della Russia. Gran parte della vitalità dell’industria mitteleuropea – alla quale si è di fatto agganciata l’industria italiana – dipendeva dalle importazioni di energia dalla Russia, che consentivano il funzionamento del sistema di collegamenti internazionali incentrato sulla Germania. La domanda cinese ha determinato un aumento delle esportazioni europee: tra il 2005 e il 2019 l’export tedesco verso la Cina è cresciuto di 4 volte, quello slovacco di 15, quello della Repubblica Ceca di 8. Esisteva un circolo virtuoso Est Europa-Germania-Cina-Russia: esportazioni crescenti verso la Cina, rese convenienti dai flussi energetici provenienti dalla Russia, senza i quali la causalità circolare cumulativa si sarebbe interrotta. Il NextGenerationEU, nella sua versione originaria (luglio 2020) aveva di fatto la funzione di riattivare un processo di causazione cumulativa in grado di preservare il modello di crescita mitteleuropeo ridando innanzitutto slancio alle esportazioni tedesche e dei suoi satelliti. La Cina avrebbe svolto un ruolo sempre più importante come fornitore di quelle tecnologie di base e di quei beni strumentali utilizzati per produrre beni finali nel settore manifatturiero europeo capitanato dalle aziende tedesche, i cui costi di produzione avrebbero beneficiato dei prezzi contenuti delle risorse energetiche provenienti dalla Russia. Questi nuovi beni sarebbero stati soprattutto acquistati dai Paesi europei più impegnati nella transizione energetica e nella mobilità sostenibile. In altre parole, la domanda finale sarebbe stata garantita soprattutto dall’Italia, dalla Spagna e dalla Francia, cioè dai Paesi che avevano ricevuto il maggior numero di risorse europee per sostenere i cosiddetti investimenti green, rispettivamente 59 miliardi, 31 miliardi, 21 miliardi. La guerra fra Russia e Ucraina, e le successive crescenti riduzioni nelle relazioni economiche fra Paesi Ue da un lato e Russia e Cina dall’altro, hanno reso impossibile un modello di crescita europeo come quello appena descritto. In particolare, le sanzioni nei confronti della Russia hanno obbligato alcune economie europee – su tutte quella tedesca e quella italiana – a guardare ad altri fornitori di risorse energetiche. L’accordo siglato nel 2023 con l’Amministrazione Biden prevede un aumento delle importazioni di gas naturale dall’America all’Unione europea fino ad arrivare a un import di 50 miliardi di metri cubi entro il 2030.

Il discorso vale anche per il Medio Oriente?

Il caso mediorientale è più complesso: credo comunque che quali che fossero gli specifici moventi dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e della reazione apocalittica e genocida da parte di Israele, l’uno e l’altra assumono il loro significato generale solo se inquadrati nella nuova trama di alleanze in Medio Oriente suscitata dai desiderata di Washington. La svolta protezionista made in Usa è la causa prima degli “accordi di Abramo” che mirano a “normalizzare” le relazioni di Israele con i grandi produttori arabi di energia, e più in generale con i Paesi a maggioranza musulmana ricchi di risorse naturali. Le conseguenze di questa operazione sul piano della politica internazionale conducono di fatto a un maggiore isolamento della Palestina. Come ha prontamente sottolineato Emiliano Brancaccio (Econopoly, 26 ottobre 2023) “il governo cinese ha sostenuto che i nuovi scontri fra Israele e Gaza rappresentano un chiaro indice di instabilità non solo degli accordi di Abramo ma anche dell’Imeec, il corridoio tra India, Medio Oriente ed Europa che gli americani sponsorizzano come sentiero commerciale contrapposto alla nuova via della seta cinese.”

Sia il conflitto russo-ucraino che l’inaccettabile eccidio israeliano nella striscia di Gaza sono parti di una riorganizzazione dell’ordine internazionale che stabilisce una chiara cesura fra Occidente e Oriente, lungo una linea che attraversa il canale di Suez, la Turchia, sfocia nel mar Nero, e passa per l’Ucraina. Questi territori sono tutti pezzi della Nuova Via della Seta cinese, la grande strategia infrastrutturale e commerciale che ha compiuto 10 anni nell’ottobre del 2023. Allora il presidente cinese Xi Jinping, di fronte ai rappresentanti di 130 Paesi, aveva usato parole celebrative che suonarono minacciose alle orecchie di chi non concepisce un ordine mondiale diverso da quello desiderato dagli Usa: “Abbiamo stimolato il flusso di beni, capitali, tecnologia e risorse umane nei Paesi coinvolti, in un magnifico quadro dipinto insieme, di connessione del mondo e di condivisione di bellezza e prosperità”.

Quando si è spezzato l’ordine internazionale e come va pertanto letta la politica cosiddetta “neomercantilista” della nuova amministrazione statunitense? Qual è il vero obiettivo dei dazi di Trump – con il loro congelamento temporaneo, tranne che per la Cina – e quali sono le relative implicazioni?

L’ordine internazionale si è rotto quando il grande debitore – che emette la valuta di riserva internazionale – ha visto suoi creditori, e in particolare la Cina, impegnata ad acquisire pacchetti azionari delle corporation occidentali che operano in settori strategicamente rilevanti. Se i creditori diventano economie in grado di controllare i settori delle materie prime necessarie a sviluppare le nuove tecnologie (per esempio le terre rare), e se diventano anche particolarmente competitivi nei settori a più alto valore aggiunto e tecnologicamente più avanzati (per esempio le telecomunicazioni, i semiconduttori o le energie alternative), se al contempo i creditori aumentano le proprie spese militari e ambiscono ad avere un ruolo politico nella sfera internazionale, allora non si può più parlare di un ordine internazionale durevole. I dazi di Trump – in linea con la logica neo-protezionistica statunitense che affonda le sue radici già nel secondo mandato di Obama – hanno un fine meramente politico: verificare quali siano davvero i Paesi amici degli Stati Uniti. Verificare quali fra questi Paesi siano disposti a smarcarsi definitivamente dalle aspirazioni della Cina e dei BRICS+. Trump sta, in altri termini, dando un significato preciso al friend-shoring.

Dato il contesto descritto, ritiene possibile creare delle condizioni economiche volte a favorire la risoluzione dei conflitti e la stabilità duratura? Se sì, in che modo? Si tratta di una via tracciabile all’interno del sistema capitalista?

I disordini del sistema internazionale che stiamo vivendo svelano la necessità di ridare un ordine alle relazioni fra grande debitore statunitense e grandi creditori orientali. Questi potranno difficilmente risolversi in modo durevole senza affrontare esplicitamente il ripensamento completo delle regole che reggono il sistema dei pagamenti internazionali. Avremmo bisogno di una nuova Bretton Woods, che regolamenti in modo coordinato i movimenti dei capitali internazionali, e che riponga in auge il grande tema di una valuta internazionale che non dipenda dalla potenza egemone. “Eutopia not Utopia”, come scriveva Keynes quando progettava – quasi inascoltato – l’International Clearing Union. Da qui occorre partire per affrontare altri problemi: una regionalizzazione sensata del commercio internazionale, che, per quanto possibile, rimetta il mondo sulla strada di una deterrenza centrata sul disarmo e sulla condivisione delle regole da cui dipende la diffusione e l’uso delle tecnologie future.