Ovunque in Ucraina la morte può arrivare in qualsiasi secondo. Incontri e testimonianze da Sumy, dopo la strage, e da Kharkiv, sotto gli attacchi aerei
Prendere l’autobus per andare in centro o semplicemente camminare guardando le vetrine, cercando di non pensare, per quanto possibile, alla guerra, in Ucraina può trasformarsi in una delle tante giornate di sangue che costellano un calendario di atrocità contro i civili compiute dai russi dal febbraio 2022 a oggi. Non basta essere sufficientemente lontani dai colpi di artiglieria e dalle trincee: si muore anche stando a centinaia di chilometri di distanza dalle linee di combattimento, per un drone Shahed lanciato dai russi sulle città ucraine come Dnipro, colpita solo pochi giorni fa da un tremendo attacco aereo. Una lunga lista di obiettivi che nulla avevano di militare: dormitori studenteschi pieni di sfollati dalle zone occupate, un istituto scolastico, un’impresa alimentare, un ufficio postale, una tipografia, negozi. Case ed edifici pubblici si possono ricostruire, non le persone. E anche chi sopravvive, chi testimonia, chi ogni notte sente suonare l’allarme svegliandosi di fretta per spostarsi in un rifugio, chi ha figli, chi non riceve messaggi da chi ama al fronte e si consuma nell’attesa, come se la vita non esistesse nel lasso di tempo tra l’uno e l’altro, va in pezzi come quelle case. Lascia. Succede nelle grandi città, nei villaggi, nei luoghi più lontani dalla battaglia e in quelli più vicini, dove la morte può arrivare ogni secondo e ogni secondo di vita in più è un dono dato da un Dio perso da qualche parte nei cieli stellati di questo Paese.
Non se lo aspettavano gli abitanti di Sumy, la mattinata di domenica 13 aprile 2025, giorno in cui gli ucraini di fede cristiana celebravano la Domenica delle Palme, di morire così, in un viale del centro, mentre andavano in chiesa o semplicemente camminavano spensierati in una giornata di sole. Una ricorrenza che si è trasformata in un incubo di sangue e distruzione. Alle dieci e quindici del mattino il cuore di Sumy si è fermato, squarciato dall’impatto di un primo missile lanciato dalle forze russe. Un autobus di linea, carico di passeggeri che forse si recavano in chiesa o a far visita a parenti in questa giornata di festa, è stato colpito in pieno. Pochi minuti dopo, mentre l’area era nel pieno dei soccorsi, è arrivato un secondo missile. La stessa dinamica criminale usata a Kryvyj Rih lo scorso 4 aprile, anche lì una strage di persone innocenti: venti morti, tra cui nove bambini. Tra le vittime di Sumy, ci sono nomi che raccontano una comunità spezzata: Liudmyla, notaia; Maryna, biologa e insegnante; Anatolii, pensionato; un’altra Liudmyla, dirigente statale; Mykola, autista; Olena, organista della Filarmonica Regionale. Il bilancio provvisorio parla di almeno trentasei civili uccisi e oltre 119 persone ferite, quindici delle quali bambini che ora portano sul corpo i segni della brutalità di questa guerra.
Per entrare a Sumy come giornalisti, da qualche settimana si deve chiedere una seconda autorizzazione, oltre al normale accredito stampa, che difficilmente viene rilasciata. Sumy è sotto stretto controllo da parte delle forze di sicurezza ucraine. L’Sbu controlla chiunque arrivi in treno, autobus o macchina, per il timore di infiltrazioni da parte di agenti russi e collaborazionisti. Il confine è a soli trenta chilometri e sono aumentate le attività di gruppi di sabotatori russi e di intelligence. Droni e Kab, le bombe plananti, sono una quotidianità, nella regione. Molti temono una nuova offensiva russa, si parla di truppe che si raggruppano oltre confine. Quando arriviamo alla stazione con il treno da Kharkiv, veniamo subito fermati dai militari presenti sulla banchina. Un agente chiede di poter vedere i documenti e il cellulare. Dopo una rapida occhiata, si informano sul motivo della visita in città e poi ci invitano a seguirli. Sono tutti mascherati con un passamontagna. Saliamo su un mezzo che ci porta in una palazzina. La porta viene chiusa a chiave da un enorme soldato in divisa militare armato di Kalashnikov. Chiedono di consegnare telefono e portatile e fornire le password.
Inizialmente c’è reciproca diffidenza, poi la tensione, piano piano, si allenta. Sono tutti molto gentili, danno del lei e spiegano che sono normali controlli. Ci sono già altre persone sotto interrogatorio in stanze separate: una ragazza e due signore. Dopo una mezz’ora si sente arrivare una macchina. La porta di metallo risuona al bussare deciso. Il soldato di guardia la apre. Sulla soglia compare un’altra figura incappucciata. “Ne abbiamo un altro. Sul suo telefono ci sono messaggi con contatti in Russia”. Il tempo scorre lento. Dalla stanza accanto si ode una voce che interroga: “Hai un passaporto russo? A chi scrivevi quei messaggi?”. Sento il mio telefono squillare in lontananza. Mi permettono di prenderlo e chiamo la mia compagna a Roma. Le dico che sto bene, che è tutto a posto, ma che non posso parlare a causa di alcuni controlli. Riattacco. “Scusa”, dice un poliziotto, “ma la situazione qui a Sumy non è tranquilla. Ci sono delle persone che collaborano con i russi. Non sono tante, ma ci sono. Non riesco a comprendere il motivo per cui tradiscono la loro nazione per aiutare chi ci sta attaccando, davvero. E poi ci sono infiltrati russi. Dobbiamo fare attenzione”. Dopo circa sette ore di fermo veniamo rilasciati e un funzionario ci porta in albergo. “Avete il cinquanta per cento di probabilità di rimanere e l’altra metà che domattina vi porteremo direttamente alla stazione”. Il giorno dopo, poco prima delle nove, arriva un messaggio: “Potete rimanere qui ma fate il minimo indispensabile di foto e video”. In altre parole, significa evitare di attirare troppo l’attenzione.
Anche a Sumy si respira l’atmosfera della Pasqua, sebbene l’ombra della guerra e il ricordo vivo della terribile strage compiuta dall’esercito russo siano ancora palpabili. Un lutto che si intreccia con una festività che per i cristiani simboleggia la vita, l’amore e la speranza nella resurrezione. In questo scenario così complesso, abbiamo visitato una chiesa battista situata a pochi metri dal luogo della strage della domenica precedente. Il pastore Mykola Viktorovych Pimanenko sta parlando ai fedeli, la chiesa è piena. Lo era anche la settimana prima, quando hanno attaccato la città. “Mentre stavo predicando, c’è stata la prima esplosione. Ho cercato di mantenere la calma ma molti, soprattutto i bambini, si sono spaventati e non sapevano cosa fare. In quel momento ho chiesto a tutti di allontanarsi dalle finestre e di non accalcarsi verso il rifugio antiaereo, perché si sarebbe creata una calca, e proprio mentre parlavo è arrivato il secondo missile. Il Signore ha protetto la nostra chiesa e nessuno è rimasto gravemente ferito. Solo due persone hanno avuto lievi lesioni. Preghiamo, e con noi tanti in tutto il mondo, perché questa follia finisca. Penso a come noi ucraini, qui a Sumy, possiamo continuare a vivere nonostante la guerra, specialmente in un periodo come questo, con la Pasqua e le sue tradizioni. Come possono i cristiani non trasmettere la fede in un momento simile? Il Patriarca russo Kirill non è un uomo di fede, perché sostiene chi ha portato sofferenza nel nostro Paese. Un vero credente ama e salva, e mi chiedo: dov’è la fede di questi russi?”. Dopo il servizio abbiamo nuovamente l’occasione per parlare con il pastore. “Aiutiamo come possiamo i nostri soldati, il nostro Paese. Molti nei vostri Paesi non capiscono cosa succede qui e pensano che dare armi all’Ucraina sia sbagliato. Noi siamo pacifisti, ma la Bibbia dice anche che chi prende la spada, di spada perirà”.
La tregua pasquale di trenta ore in Ucraina dichiarata da Putin è stata accolta con scetticismo da Kiev, che ha denunciato continue violazioni russe definendole una “mossa propagandistica”. Mosca a sua volta ha accusato gli ucraini. L’unico risultato ottenuto sembra quello di aver reso i cieli, per poche ore, sicuri. Al fronte però, le armi non hanno taciuto ovunque. Trenta ore di pace nei cieli ucraini. Poco più di un giorno su oltre mille. Poi ricomincia l’inferno. Prima Odessa. Poi Zaporizhzhia, dove le bombe aeree hanno danneggiato case e imprese, causando una vittima civile e ferendo oltre trenta persone, tra cui bambini.
Anche a Kharkiv tornano gli attacchi aerei. Il 22 aprile, il centro città è colpito da un’ondata di droni, almeno dodici tra l’una e le due del pomeriggio. Prima si avverte un rumore persistente, simile a quello di un aereo a elica che rimbomba nell’aria, un suono che si fa sempre più acuto quando il velivolo inizia la sua virata in picchiata verso l’obiettivo. Il primo drone lo sentiamo precipitare proprio mentre ci troviamo fuori da una Ong che fornisce pasti gratuiti a ospedali e civili. Una ragazza si mette a correre disperatamente verso il portone di un palazzo. Nel bar di fronte, alcuni clienti si alzano di scatto dai tavoli, cercando rifugio all’interno. L’esplosione è assordante. Un soldato seduto a un tavolino all’aperto non si scompone minimamente, continuando la sua conversazione al telefono. Gli arrivi sono continui, le esplosioni si susseguono senza sosta. Timidamente, qualche batteria di contraerea ucraina tenta di intercettare i droni, ma con scarso successo. Nel pomeriggio si contano ingenti danni materiali, fortunatamente senza vittime. Un uomo è rimasto gravemente ferito, ma sembra che non sia in pericolo di vita. La sua auto è ridotta a un ammasso di lamiere annerite dalle fiamme.
Il giorno seguente, almeno in città, porta una tregua, un sospiro di sollievo collettivo. Eppure, qui a Kharkiv, come in molte altre zone del Paese, si percepisce una normalità innestata sull’anormalità, una quotidianità apparente dove i negozi restano aperti, si svolgono eventi culturali, lo zoo accoglie famiglie in cerca di qualche ora di serenità e, con l’arrivo del caldo, i parchi cittadini, con la loro cura geometrica di cespugli potati e alberi in fiore, si popolano di migliaia di persone. “No, non è normale vivere così”, spiega Maryam, “ci siamo solo adattati. Prima non c’erano le bombe, né gli allarmi aerei. Non ti svegliavi con il cuore in gola di notte e tuo marito non era al fronte nel Donbas, ma in ufficio, a fare l’ingegnere”. Questa normalità nell’anormalità è quella calma superficiale, quello schermo che erigiamo tra la mente e la realtà circostante per convincerci che tutto va bene, che la vita può continuare. E che ci si può persino concedere una cena fuori con gli amici in un nuovo ristorante. Un attimo di quiete. Ma di notte, l’anormalità si riaffaccia, prima nel sonno e poi nel brusco risveglio, quando ci si alza di scatto, correndo per la stanza ancora assonnati, perché quello che si sente è quel suono maledetto, simile a un motorino o a una motosega che si avvicina, e si pensa che stia arrivando proprio addosso.
Il 23 aprile, sia la capitale che Kharkiv subiscono nuovi attacchi. Di notte, i bombardamenti si fanno ancora più spaventosi nel silenzio quasi totale imposto dal coprifuoco. Questa volta è Kiev a finire sulle prime pagine per l’ennesima strage di innocenti. Il quartiere di Sviatoshyn è devastato dai missili russi, causando dodici vittime. Due giorni dopo, centinaia di persone, tra volontari, vigili del fuoco e polizia, continuano a scavare tra le macerie. Ci sono anche gli amici di Danylo, che fino all’ultimo hanno sperato di trovarlo vivo sotto i resti della sua casa, dove hanno perso la vita anche i suoi genitori. Solo la sorella si è salvata ed è ora ricoverata in ospedale. Su un palo, un foglio con la foto di un gatto rosso e un numero di telefono.