Conflitto russo-ucraino, ‘le risorse sono al limite, è possibile un accordo nel prossimo futuro’. L’analisi del giornalista Yurii Colombo, ospite a Lugano
Dopo quasi 39 mesi di guerra sfiancante, con centinaia di migliaia di morti, milioni di sfollati e di rifugiati ucraini all’estero, città e villaggi distrutti, e un danno ambientale immenso, la popolazione ucraina è allo stremo per la devastazione e la perenne inquietudine degli attacchi incessanti, mentre sul fronte russo la spossatezza e le rispettive perdite si fanno sempre più pesanti. «Rendiamoci conto che le guerre mondiali sono durate 5-6 anni e in questo caso dal giorno dell’aggressione russa all’Ucraina sono già passati 3 anni e mezzo. Le risorse militari, economiche e soprattutto umane sono giunte al limite. La pace diventa necessaria anche solo per riprendere fiato. E i leader di ambo i fronti ormai ne devono inevitabilmente tenere conto. Proprio questo è uno dei fattori per cui è possibile che nel prossimo futuro si arrivi a un accordo». Ma un accordo a quali condizioni? Di questo e dell’attuale situazione sul piano negoziale parliamo con Yurii Colombo, giornalista e scrittore di stanza a Mosca, a cui appartengono le considerazioni iniziali e che sarà protagonista dell’incontro “Quale ‘pace giusta’ per il popolo ucraino?” in programma domani, giovedì 8 maggio, al Canvetto Luganese alle 20.30. Un evento organizzato dal Comitato di solidarietà con l’Ucraina e per il disarmo.
Partiamo dalle recenti dichiarazioni di Trump, che ha parlato di un ‘odio tremendo’ tra Zelensky e Putin, tanto che ‘forse la pace non è possibile’, anche se poi nella stessa intervista accenna a ‘ottime possibilità di farcela’. Esternazioni tanto opposte da annullarsi ma che rendono bene l’idea di una situazione che da qualche settimana si trova in una fase di paralisi. Qual è il nodo da sciogliere?
È effettivamente in corso uno stallo dovuto principalmente al fatto che ora Kiev sembrerebbe disposta a concedere la Crimea e i territori finora conquistati nel Donbass alla Russia, ma non de jure – quindi col riconoscimento internazionale – bensì solo de facto. Questo nella speranza che comunque in futuro, con il crearsi di nuove condizioni diplomatico-politiche, possa tornare in possesso dei suoi territori. Di tale concessione però Mosca se ne fa ben poco poiché la Crimea è sotto il suo controllo già dal 2014. Dopo 3 anni e mezzo di sforzo bellico, con un’industria militare che ha operato 24 ore su 24 per sostenere il conflitto, accettare a queste condizioni risulterebbe per Putin una “vittoria mutilata”, per dirla con D’Annunzio. La situazione è quindi bloccata dal fatto che gli obiettivi minimi che i due contendenti si pongono sul campo restano molto distanti e, per adesso, nessuna diplomazia può avvicinarli per giungere a una soluzione.
Uno dei punti fondamentali del programma elettorale di Trump era la promessa di condurre rapidamente alla risoluzione del conflitto russo-ucraino: evidentemente non sta andando così. Eppure la settimana scorsa è stato siglato l’accordo definito ‘storico’ sulle terre rare tra Kiev e Washington, peraltro considerato dall’Ucraina ‘molto equo’. Che ruolo effettivo stanno giocando gli Stati nelle negoziazioni e quali sono i reali interessi di Trump?
L’amministrazione Usa ha sicuramente influenzato gli sviluppi degli ultimi mesi. Tuttavia, la sua idea di una cessazione immediata del conflitto, come era prevedibile, si sta dimostrando molto più complessa di quanto preventivato. Anche perché i Paesi europei che Trump considerava come alleati mansueti e facilmente gestibili hanno mostrato una forte opposizione. Si sono dichiarati non solo contrari a una pace a qualsiasi costo, ma determinati a sostenere le ragioni di Kiev nel tavolo bilaterale dei negoziati tra Washington e Mosca. Effettivamente, il discorso delle terre rare da un certo punto di vista rappresenta una piccola vittoria per Trump. Ma se si guarda agli interessi personali del presidente Usa questi vanno in ben altre direzioni rispetto all’Ucraina. L’accordo gli è servito soprattutto in chiave propagandistica per dire che Biden aveva dato palate di soldi senza chiedere nulla agli ucraini mentre adesso lui è passato alla cassa. Tra l’altro tutto questo – il controllo delle ricchezze di una nazione – è frutto di una logica politica neocolonialista che riporta al XIX secolo, ciò che dal punto di vista delle relazioni internazionali è grave.
D’altro canto l’accordo potrebbe essere una garanzia per l’Ucraina: se queste terre sono di grande interesse economico per gli Stati Uniti, ciò potrebbe proteggerla in caso di nuove offensive russe sui suoi territori. Ecco spiegato in che modo si sarebbe trovato un punto di equilibrio tra i diversi interessi. Tuttavia i punti di equilibrio possono saltare in ogni momento, perché uno Stato può decidere quando vuole di nazionalizzare un’impresa che ritiene di importanza strategica. E dal canto loro gli Stati Uniti, per valutazioni geopolitiche più ampie, a un certo punto potrebbero anche disinteressarsi di questi aspetti pur di giungere a un accordo con Putin.
Quanto alla più stretta contingenza, Putin continua a rifiutare il cessate il fuoco di 30 giorni promosso da Washington, anche se lunedì ha chiesto un vertice con Trump, mentre insiste per una tregua di tre giorni in occasione del Giorno della Vittoria sul nazifascismo del 9 maggio, che però Kiev non vuole concedere. Quanto è importante questa ricorrenza e che cosa ci si deve aspettare?
È una data storica a cui la nazione si sente profondamente legata perché più di 20 milioni di russi sono morti durante la Seconda guerra mondiale per bloccare l’invasione nazista. Tutte le famiglie hanno avuto un lutto o qualcuno che ha combattuto in quella che definiscono la Grande guerra patriottica. Quest’anno è l’ottantesimo anniversario, quindi un anniversario tondo, ancora più sentito. Putin ha invitato per tempo importanti personalità a livello mondiale: sulla Piazza Rossa ci saranno il presidente cinese Xi Jinping e quello brasiliano Lula da Silva. Questo è un dato rilevante visto che due Paesi ormai giganti dal punto di vista demografico ed economico rompono l’isolamento di Putin presentandosi per tale iniziativa. Zelensky ha dichiarato di non poter garantire la sicurezza. È tuttavia molto difficile che i droni o l’aviazione ucraina possano colpire la Piazza Rossa o Mosca, perché saranno meticolosamente protette. Questo naturalmente produce tensioni e polemiche. Ma effettivamente, come sostiene Zelensky, tre giorni di tregua non hanno alcun significato pratico, perché per stabilizzare un fronte, per far sì che gli ordini arrivino, che le truppe si posizionino territorialmente, insomma, per realizzare questo cessate il fuoco occorre tempo e, giustamente, come minimo ci vorrebbero almeno 30 giorni per aprire la strada a una trattativa seria.
Si attende poi ovviamente il discorso di Putin sulla Piazza Rossa. In parte è prevedibile: avendo ospiti internazionali e parlando soprattutto al Sud del mondo – che è rimasto in una posizione piuttosto neutrale di fronte a questo conflitto –, da un lato rinnoverà la volontà della parte russa di arrivare comunque a un accordo di pace. Dall’altro probabilmente mostrerà i muscoli e dirà che se l’Ucraina non è disposta ad accettare le annessioni russe, porterà avanti l’offensiva che chiama strumentalmente “denazificazione”.
In questo momento, a tre anni e mezzo dall’aggressione, dopo che la controffensiva ucraina è sostanzialmente fallita, le speranze di riprendersi con le armi il Donbass e la Crimea respingendo i russi da dove sono arrivati il 24 febbraio non esistono più. Lo ha accennato lei, e lo ha detto lo stesso Zelensky: ‘Non siamo in grado di riconquistare militarmente questi territori’. A quale tipo di ‘pace giusta’ può quindi ambire oggi l’Ucraina?
L’eventuale riconquista, come detto, dovrà passare attraverso un percorso diplomatico. Dato che la pace giusta non è mai una pace giusta in assoluto, ma giusta nelle condizioni politiche e storiche date, se effettivamente l’Ucraina riuscisse ad arrivare a un accordo che preveda solo il controllo de facto della Russia su questi territori e le venisse garantito il diritto di avere un esercito pienamente efficiente, probabilmente riuscirebbe a ottenere il massimo possibile dalle condizioni attuali. Il secondo punto è tutt’altro che scontato considerando che dietro tutte le chiacchiere russe sulla denazificazione il vero obiettivo è la demilitarizzazione ucraina. Vale a dire che la Russia punta a far sì non solo che l’Ucraina sia uno Stato neutrale e non aderisca alla Nato, ma che non abbia una forza militare tale da potersi difendere in prospettiva da altre aggressioni.
Esiste un’altra eventualità, non così positiva, non così valida, non così giusta, che però potrebbe aprire una prospettiva di pace della quale l’Ucraina ha assolutamente bisogno per ricostruire il Paese dal punto di vista economico, morale e demografico. È quella di riconoscere anche de jure la Crimea passata sotto il controllo russo. È una cessione dolorosa, ma da non escludere. Si può tracciare un parallelismo con l’Irlanda che combatté contro la Gran Bretagna per l’indipendenza senza riuscire a rendere indipendente tutta l’isola: come sappiamo l’Irlanda del Nord è rimasta sotto il controllo britannico, questo perché la dirigenza del movimento di liberazione irlandese fece delle valutazioni politiche che si possono definire realistiche.
Nelle due ipotesi de facto e de jure ci troveremmo di fronte a una pace giusta sicuramente senza la P e la G maiuscole, ma necessaria affinché l’Ucraina possa guardare al proprio futuro, anche in prospettiva dell’entrata nell’Unione europea che sarebbe un prossimo passo avanti per il Paese.
A proposito di Unione europea, che spazio di manovra le resta in questo processo dopo che all’inizio della trattativa tra Stati Uniti e Russia sembrava essere stata tagliata fuori salvo poi tornare a farsi ascoltare con però in sottofondo un’opinione pubblica tutt’altro che unanime?
L’Ue ha promesso che il prossimo anno darà ancora 23 miliardi di euro di aiuti umanitari e militari all’Ucraina, è quindi decisa a non abbandonarla. Naturalmente l’Europa allo stesso tempo si rende conto che da sola non può garantire la tecnologia e le armi che hanno gli americani. In aggiunta si trova in una situazione in cui parte dell’opinione pubblica è contraria allo sforzo bellico, ritenendo che continuare a spendere soldi per l’Ucraina anziché investirli nella pubblica istruzione, nella sanità, nelle scuole sia sbagliato. Anche in chiave populista, c’è chi si chiede il senso di finanziare uno scontro bellico che si è dimostrato un tunnel senza uscita. Il fatto che non ci sia un’unità nell’opinione pubblica su questo tema condiziona le scelte nei vari Paesi. L’Europa si trova quindi a doversi muovere su un crinale, cercando di favorire una pace in cui gli ucraini, anche se non completamente soddisfatti, possano però trovare una via d’uscita per far ripartire la storia del Paese dopo tre anni e mezzo di tragedia, e al contempo cercando di mantenere con un cordone sanitario sotto controllo la Russia affinché non pensi di immaginare nuove avventure né in Ucraina né nei Paesi baltici o in Polonia.
Negli scorsi giorni la Bbc ha fotografato il 2024 come l’anno più sanguinoso per le forze russe dall’inizio della guerra in Ucraina: almeno 45’287 soldati uccisi. Le sofferenze di questa guerra ricadono anche sui militari del Cremlino, oltre che drammaticamente su quelli ucraini e su tutta la popolazione. Qual è lo stato d’animo di chi combatte?
Sia le truppe russe che le truppe ucraine al fronte non hanno mai avuto rotazione, se non qualche settimana di riposo nelle retrovie, ma senza poter tornare a casa. Ci sono quindi truppe che combattono da tre anni e mezzo, e ben sappiamo quali sono le condizioni climatiche del Nord Europa. Recentemente ho pubblicato un’intervista a dei soldati russi al fronte che dicevano di essere andati lì per soldi, perché avevano debiti e volevano sistemarsi, una condizione che ormai accomuna molti combattenti, come era il caso degli americani in Iraq o in Afghanistan. Dunque molto spesso le ragioni non sono né ideali, né nazionalistiche, ma semplicemente di puro mercenariato. Uno di questi soldati mi diceva: “Sono molto stanco e più vado avanti più mi rendo conto che anche con la debolezza fisica il rischio di morire diventa sempre più alto”. Rispetto alla situazione ucraina ho meno polso, ma penso che anche là sia simile. La stanchezza tra civili e soldati è tanta. C’è voglia di tornare alle proprie famiglie, di ricostruire. C’è voglia di tornare alla vita normale.