Per il professor Cattacin la logica della cittadinanza decentrata sarà il modello di domani, ma serve maggior responsabilizzazione dei poli urbani
«La salvezza delle valli passa dalla loro urbanizzazione, non dalla loro autonomizzazione. O meglio, passa dal rafforzamento della Città Ticino, di cui sono parte integrante». Ne è convinto Sandro Cattacin, professore di Sociologia all’Università di Ginevra. Da decenni ormai le valli ticinesi, specialmente quelle montane, sono confrontate con un inesorabile spopolamento che va di pari passo con l’invecchiamento della popolazione residente e una rarefazione dei servizi essenziali e delle attività lavorative. Ne consegue che al giorno d’oggi la maggior parte degli utilizzatori dei territori più alti siano persone che vi arrivano per fare turismo, passeggiare, riposarsi, fruire di offerte culturali.
«Ciò che si constata è che oggigiorno la gente che vive e lavora nella stessa valle è molto meno numerosa rispetto al passato. Chi vi abita ed è attivo professionalmente pratica piuttosto un pendolarismo continuo dall’alto verso il basso e ritorno» osserva Cattacin. La tendenza al pendolarismo, precisa il sociologo, «è iniziata intorno agli anni 80 del secolo scorso anche grazie al fatto che tra i poli urbani i collegamenti sono man mano diventati più veloci – questo vale per il trasporto privato e parzialmente anche per quello pubblico – e alla striscia urbana si arriva ormai abbastanza velocemente pure dalle valli».
Anche il lavoro che caratterizzava l’economia rurale di un tempo esiste in proporzioni molto minori. Ci sono ancora ad esempio dei produttori di vino che resistono, degli allevatori che tengono le mucche all’Alpe. Tuttavia a questo quadro recentemente si è aggiunto un nuovo ventaglio di categorie professionali, rileva con interesse Cattacin: «In concomitanza con la pandemia, le valli sono state riscoperte come luoghi in cui svolgere a distanza lavori d’ufficio beneficiando del loro ambiente e della relativa qualità di vita». In altre parole, spiega Cattacin, «l’home office, che ha subito un’accelerazione in tanti settori e si è successivamente stabilizzato, ha fatto sì che le persone che hanno una certa formazione, un certo tipo di competenze e anche un certo salario abbiamo potuto cogliere l’opportunità di smobilitarsi, ovvero di abbandonare il viavai frenetico per vivere un’altra esperienza di esistenza lavorativa. Esperienza che è comunque di tipo urbano, ma decentrata nelle valli». A tale fine è fondamentale disporre di un accesso a tutte le infrastrutture legate al computer e a internet, ed è questo ciò che Cattacin intende quando parla di «installarsi urbanamente in valle». Tirando le somme, il risultato è che diversi di questi luoghi hanno conosciuto una certa rivitalizzazione a causa dell’accelerazione e generalizzazione della società del decentramento del lavoro.
Questo aspetto da solo non basta però a contrastare la crisi in cui si trovano le valli. Uno degli strumenti politici spesso promosso proprio a tale scopo – o quantomeno per tamponare l’erosione demografica e di attività – è quello delle aggregazioni comunali. Si tratta di uno strumento che da un lato consente una razionalizzazione delle risorse e dei servizi, finanziamenti più consistenti con nuove opportunità di sviluppo nelle aree periferiche, nonché un maggior peso politico per queste zone discoste. Dall’altro però le aggregazioni portano inevitabilmente a una diminuzione dell’autonomia e a un possibile scemare dell’attaccamento alle istituzioni, così come a una minor partecipazione ai processi decisionali come pure alle votazioni alle urne.
Quanto ai punti dolenti Cattacin afferma: «Sì, sono rischi concreti, ma si deve portare pazienza. Il primo impatto per tante persone è spesso di disorientamento. Quel che può succedere è che ad esempio non si incontri più il sindaco quotidianamente tra le vie del paese perché come sindaco del comune aggregato è magari stato scelto un politico di una località più grande. Insomma viene meno l’aspetto della prossimità. D’altra parte però se ci si aggrega è perché se ne sente il bisogno, perché la maggior parte delle persone – visto che le aggregazioni passano dal voto popolare – ritengono che le strutture comunali siano inadeguate. Ci sono poi tanti altri argomenti per aggregarsi, ma nei piccoli comuni si fa proprio anche quando non si riesce più a produrre personale politico disposto a gestire la cosa pubblica».
Tra i fattori che contribuiscono al venir meno dell’impegno per il comune c’è proprio, secondo Cattacin, la possibilità data dalla Città Ticino di vivere in piccole località lavorando altrove: «Capita spesso che queste persone passino più tempo nel territorio in cui lavorano, in cui vanno al ristorante o a fare acquisti che nel comune dove tornano solo per dormire. E così si interessano più della politica del luogo dove trascorrono la giornata che di quello dove hanno il domicilio. Si può quindi giustamente constatare e criticare che diminuisca il civismo, ma vanno analizzate tutte le ragioni».
Secondo Cattacin la logica della cittadinanza decentrata sarà il modello di domani, ma serve una responsabilizzazione molto maggiore verso le valli da parte dei poli urbani per mantenere la possibilità di vivere anche lassù. «Le città hanno più risorse per salvare le valli che le valli stesse. Le città sono creatrici di innovazioni, di benessere, di società aperte, ma deve esserci un tipo di politica che sostenga queste dinamiche e che guardi al territorio Ticino nel suo insieme». Un territorio, dice il professore, «legato da dinamiche pendolari e di produzione di ricchezza per cui se la città sta bene anche la valle sta bene». E a tal proposito il nostro interlocutore lancia un monito: «Non bisogna creare una contrapposizione come fanno certi movimenti e partiti, Lega dei ticinesi e l’Udc in primis».
A questo proposito Cattacin cita il discorso del primo agosto 2021 dell’allora presidente nazionale democentrista Marco Chiesa che si era scagliato contro le città svizzere – fatta eccezione Lugano – accusandole di essere prevalentemente in mano alla “gauche caviar” e agli “estremisti verdi” e di godere di privilegi dei quali pagherebbe dazio la popolazione rurale identificata come quella dei veri svizzeri che hanno lavorato una vita per il Paese. Il professore evidenzia l’ipocrisia di «un discorso localista che dipinge una realtà rurale idealizzata che non esiste».
Per il sociologo bisognerebbe «lavorare molto di più sulle domande “come possiamo rinforzare la Città Ticino e valorizzare le sue multiple appartenenze?”. “Come possiamo rinforzare la presenza dell’urbano nel mondo decentrato?”. A suo giudizio «è sicuramente essenziale puntare sullo sviluppo delle fibre ottiche e delle antenne che permettano un buon accesso alla rete, ma al contempo è necessario fare degli investimenti creativi per fare in modo che il territorio possa accogliere anche un turismo diffuso e sostenibile e un fermento culturale».
A riguardo le proposte più interessanti che si fanno nelle valli ticinesi, considera Cattacin, «sono promosse da gruppi che vengono visti come problematici o disprezzati da diversi attori politici in Ticino. Gruppi che sono vicini a delle logiche di cultura indipendente, alla sperimentazione». Tra i numerosi esempi virtuosi si può annoverare il Verzasca Foto Festival, capace di offrire in valle una mostra in grado di attirare persone che vivono in città e anche fuori dai confini cantonali e nazionali.
«In questo come in altri casi abbiamo degli attori che sono anche locali e che mettono a disposizione la loro casa, la loro stalla per fare delle esposizioni artistiche, dei concerti, per dar spazio alla creatività. Si tratta di “urban bottom-up initiatives”, iniziative dal basso urbane che si sono localizzate nelle periferie delle città. È un fenomeno che vediamo anche in altri posti – articola Cattacin –: più la città diventa centro pulito, controllato, dove non si deve sporcare né urlare, più le culture alternative, indipendenti, si costruiscono nelle periferie urbane. A Londra i luoghi dove si fa bella musica, dove c’è sperimentazione, dove c’è migrazione – ovvero tutto ciò che contribuisce alla diversità e alla creatività – sono discosti. E nella Città Ticino parzialmente accade lo stesso grazie all’urbanizzazione della periferia che viene resa più vivace».
Alla domanda se eventi naturali come il devastante nubifragio che si è abbattuto sulla Vallemaggia un anno fa possano segnare nella popolazione un cambio di percezione aumentando i timori per la vita in valle, Cattacin risponde rimarcando innanzitutto che simili calamità fanno parte di fenomeni legati al riscaldamento climatico che in modo trasversale stanno sconvolgendo non solo le valli, ma tutti i territori nei quali viviamo, con una frequenza in aumento: «L’ambiente che si ribella o che soffre può essere un giorno quello della valle in cui viene giù la montagna, e un altro giorno quello cittadino in cui un violento temporale fa esondare i fiumi e crea grossi danni».
Secondo il sociologo rispetto ai pericoli in valle «è soprattutto l’occhio del cittadino che ha paura. Chi invece vive lassù è cosciente che esistono questi pericoli e sa leggere la montagna, i fiumi, il cielo. In un certo senso potremmo dire che c’è una costruzione urbana della catastrofe in periferia. Questo non è per minimizzare le conseguenze, ma per evidenziare che se 100 anni fa in valle si abbatteva qualche evento atmosferico violento, si ricostruiva e si ricominciava a vivere senza quasi che se ne parlasse in città. Oggi invece se ne parla quasi più in città».
Siamo di fronte alla sfida «evidentemente molto grande» di trovare delle risposte soprattutto per prevenire il verificarsi dei peggiori danni. Sfide che per il sociologo sono «tanto più grandi quanto meno si conoscono le valli. È dunque importante avere sul territorio chi quel territorio lo sappia leggere. I pochi contadini rimasti lassù danno una mano in questa direzione». Conoscere le valli e i suoi segnali, conclude Cattacin, «è quindi una delle possibili risposte pragmatiche per contenere le conseguenze di tali avvenimenti. E anche per questo è fondamentale far sì che si possa continuare a viverle».
L’Accademia di architettura dell’Università della Svizzera italiana (Usi) dedicherà il prossimo corso di diploma al tema delle valli laterali ticinesi, territori caratterizzati da una limitata presenza urbana e dall’assenza di collegamenti ferroviari. L’iniziativa è firmata dal professor Martino Pedrozzi. Nel progetto saranno coinvolti quindici professori dell’Accademia, a ognuno dei quali sarà assegnata una valle, alla quale potranno dedicarsi scegliendo il proprio metodo e l’aspetto da approfondire. Tra i possibili temi da sviluppare vi sono la vita abitativa nei contesti montani, il riuso di architetture rurali in abbandono, la mobilità sostenibile e la valorizzazione del patrimonio storico-paesaggistico. Le valli selezionate sono: Bedretto, Tremola, Blenio, Morobbia, Verzasca, Valle Maggia, Onsernone, Vira, Val d’Isone, Valle del Cassarate, Magliasina, Tresa, Mara, Gaggiolo e Valle di Muggio. Uno degli obiettivi del progetto è quello di poter instaurare delle collaborazioni con le comunità vallerane, coinvolgendo le amministrazioni locali nel dibattito sul futuro delle valli ticinesi.
Intanto dal 2 al 4 luglio scorsi si è tenuto l’evento celebrativo dei 30 anni dell’Associazione Internazionale per la Storia delle Alpi (Aisa) intitolato “Des Alpes traversées aux Alpes vécues (1995-2025)” presso la Casa della sostenibilità dell’Usi, ad Airolo. Fondata nel 1995, l’Aisa promuove una storia delle Alpi che supera i confini nazionali e linguistici. La manifestazione ha offerto tre giornate di conferenze, tavole rotonde e momenti di incontro dedicati alla storia alpina e alle sue connessioni con le sfide della sostenibilità, passate e presenti. È stata inoltre presentata la nuova rete di ricerca Swiss Arc, nata per rafforzare la collaborazione tra istituti svizzeri impegnati nello studio delle società alpine. L’interesse per il tema, insomma, è ampio.