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Abusato da un prete, ‘l’ho perdonato, ora aiuto altre vittime’

Anni di violenze quando era chierichetto, la depressione, il libro denuncia. ‘Parlarne significa avere il 40% delle possibilità di stare meglio’

(Keystone)
11 luglio 2025
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Era il 1968, aveva otto anni, quando gli abusi sono iniziati. Lui era un frate cappuccino: stimato e rispettato dai fedeli, le sue prediche sapevano commuovere e far venire le lacrime agli occhi in chiesa. Daniel era un ragazzino con una famiglia complicata, sua madre era depressa, il padre aveva tentato di accoltellarla quando lo aspettava. Sballottato coi fratelli da una famiglia affidataria all’altra a Friburgo. «Facevo il chierichetto, ero solo, con una famiglia a pezzi. Lui... lui ha percepito la mia debolezza. E mi ha scelto come vittima», ci racconta Daniel Pittet, 65 anni, ex bibliotecario all’Università di Friburgo. Lo incontriamo a Lugano.

Pastore carismatico e predatore

Quel frate, continua, aveva due volti: «Quello del pastore carismatico e quello privato, che nessuno vedeva, del predatore. Mi ha stuprato per quattro anni. Ha fatto lo stesso con altre decine di ragazzini. E non ha mai dimostrato un’ombra di rimorso».

I suoi occhi si inumidiscono quando ci parla di sua nonna: «Lei mi ha dato la fede. Senza fede sarei morto», dice. Ha una moglie, si chiama Valerie, sei figli, la sua storia è diventata qualche anno fa un libro di successo ‘La perdono, Padre’ con la prefazione di Papa Francesco, che l’aveva definita una testimonianza necessaria, preziosa e coraggiosa. Un capitolo del libro – e questo è davvero unico – è dedicato all’intervista del suo aguzzino, il frate.


Keystone
La storia di Daniel Pittet è diventata qualche anno fa un libro di successo ‘La perdono, Padre’

‘Sono un diacono delle periferie’

Dall’abisso infernale alle vette del perdono, dimostrando una resilienza fuori dal comune. «Perdonare non significa dimenticare». Lo dice piano ma con la fermezza di chi ha scelto di costruire la sua vita sul perdono, senza perdere la fede, malgrado tutto: le violenze subite, il tradimento della Chiesa, gli anni di silenzi, gli insabbiamenti e un sistema di copertura sistematica degli abusi.

Un percorso tutt’altro che facile ma possibile. Due anni fa è diventato diacono, a servizio della Diocesi di Losanna Ginevra e Friburgo. Lui ama definirsi un diacono delle periferie: «Non sono né uno psicologo, né uno psichiatra, ma da quando ho scritto il libro, le vittime mi cercano. Ogni mattina ascolto una persona che ha subito violenze, molti in famiglia. Ne ho incontrate quasi duemila. Vedere queste persone andare via più leggere, mi fa stare bene», ci dice.

‘Ascolto anche i pedofili’

Ha ricevuto migliaia di lettere, in tutte le lingue, da ogni angolo del mondo; ha fondato l'associazione ‘No, nein’ per aiutare chi è stato abusato a trovare voce e ha scritto altri libri. Mi mostra una carta semplice, con una sola parola: No. «Bisogna insegnare ai bambini a dirlo, a fargli capire che le loro parti intime sono private. Dire No potrebbe salvarli dalle manipolazioni seduttive di un pedofilo». Anche loro lo cercano: «Ne ho incontrati una quarantina. Ascoltarli, lo confesso, è davvero dura».

Daniel Pittet è un sopravvissuto, un uomo di fede, nonostante tutto. Sul suo braccio porta tatuata una parola: ‘fragile’. «Mi ricorda il mio cammino di umiltà: sono fragile». Lo dice con lo sguardo di chi non ha dimenticato ma ha scelto di trasformare il buio in luce.

Per gran parte delle vittime, superare la vergogna, rompere il silenzio, parlare degli abusi subiti e chiedere aiuto è un’impresa immane. Molti portano questo segreto nella tomba. Lei come ha fatto?

Per anni ho pensato che ero l’unico a subire quegli atroci pomeriggi di violenza. Chi mi avrebbe creduto? In famiglia erano tutti religiosi, lui era un cappuccino rispettato, nessuno mi avrebbe mai dato retta. Un giorno la mia prozia ha capito e sono uscito dall’inferno. Avevo 12 anni. Ho pensato al suicidio più volte, ho attraversato la depressione.

Chi viene abusato non dimentica, resta segnato per sempre, spesso viene rifiutato, escluso dalla famiglia, visto che gran parte degli abusi lì avviene. Dopo anni di terapia ho trovato le parole per dirlo. Era il 1990.

Che cosa ha fatto la Chiesa?

Mi avevano promesso che lo avrebbero allontanato, che non avrebbe più abusato. Dieci anni dopo ho scoperto che lo avevano spedito in Francia, dove era responsabile di sette parrocchie e ha continuato ad abusare altri ragazzi.

Questa settimana il gruppo ticinese di ascolto alle vittime in ambito religioso Gava e mons. Alain de Raemy hanno fatto un appello alle vittime, chiedendo di farsi avanti per segnalare gli abusi subiti: cosa dice a chi teme di fare questo passo?

Lo dico per esperienza: parlare di ciò che si ha subito in uno spazio protetto, con professionisti o altre vittime, significa avere il 40% di possibilità di stare meglio. Chi ha subito abusi si ammala più facilmente, somatizziamo il dolore. Purtroppo, dietro molti suicidi ci sono abusi soffocati, tenuti segreti per decenni, anche di generazione in generazione.

Perché incontrare il suo aguzzino?

Volevo andare avanti. Lui era un buon frate, almeno in apparenza: durante la messa i fedeli si commuovevano ascoltando le sue prediche, parlavano di lui con rispetto. Allo stesso tempo era un ‘salôt’, un uomo profondamente malato. I suoi superiori hanno fatto finta di non vedere, spostandolo in un’altra parrocchia, come se bastasse cambiare luogo per risolvere il problema. Così facendo, gli hanno permesso di abusare di altri bambini. Tutto è rimasto nascosto, insabbiato, protetto. Quando da adulto ho deciso di incontrarlo, mi sono trovato davanti un vecchio. Non mi è parso pentito. Con me c’era il vescovo. Da solo non ce l’avrei fatta a fare i conti con tutto.

Lei ha fatto un percorso di perdono. Come ha fatto?

L’ho fatto per me stesso, quando perdoni stai meglio, si ridà il pacco di sofferenza all’altro. Quando me lo sono ritrovato davanti non volevo fargli del male. Volevo solo essere libero. Perdonare, non significa dimenticare. Non puoi dimenticare. Chi viene abusato in famiglia spesso si avvicina alla Chiesa; chi viene abusato in un ambito religioso di regola si allontana dalla Chiesa. Penso di essere un’eccezione, la mia fede mi ha aiutato.


Da qualche anno è diventato diacono

Come riesce ogni giorno a incontrare chi ha subito le sue stesse ferite? Non si riaprono?

È la mia missione, fino alla morte mi occuperò di persone che hanno subito violenze, ne incontro una al giorno, hanno dai 16 fino ai 90 anni. Molti tra loro ne parlano per la prima volta. Per anni hanno portato in grande solitudine macigni immensi. Tanti abusi avvengono dentro le mura domestiche e spesso chi violenta è protetto dalla famiglia. Tutto continua e continua.

Senza contare che una vittima non aiutata rischia di ripetere su altri le violenze subite: gran parte dei pedofili è stata un bambino stuprato.

Ogni pedofilo aiutato, curato, è una (o più) vittima salvata: si fa abbastanza in Svizzera?

Penso proprio di no, bisogna fare di più. Quando escono dal carcere, queste persone hanno ancora queste pulsioni, c’è chi sta ore sul darkweb a guardare orrori pedo-pornografici. Poi ci sono quelli che non passano all’atto per timore della prigione. Servirebbero più specialisti, gruppi di auto aiuto, come succede in altri Paesi.

Casi recenti raccontano ancora di insabbiamenti da parte della Chiesa, come decenni di abusi ricostruiti all’abbazia vallesana di Saint-Maurice. I vertici dell’abbazia hanno a lungo assunto una posizione difensiva, banalizzando i fatti, per preservare la reputazione. Come si pone di fronte a una Chiesa che per tanto tempo non ha creduto alle vittime, ha insabbiato gli abusi, spostando chi li commetteva, per mantenere immacolata la propria immagine?

Continuo a battermi perché la Chiesa rompa il silenzio e denunci i pedofili. Essere trasparenti e domandare scusa sono i primi doverosi passi per riconoscere le sofferenze delle vittime. Tante rischiano il suicidio, vite storte, malattie. Sono grato di essere ancora vivo dopo l’inferno che ho passato.

Perché ha raccontato la sua storia nel libro ‘La perdono, padre’?

Se non dici nulla, l’orrore continua. Se fai qualcosa, si ferma. Quando vado nelle scuole, c’è sempre qualche studente che inizia a parlarmi. Ricordo una ragazza, mi disse che da anni il padre la violentava e da poco aveva spostato la sua attenzione sulla sorella minore. Mi chiese di accompagnarla dalle autorità. L’uomo è stato poi condannato a 10 anni di carcere.


Con Papa Francesco

Cosa le ha detto Papa Francesco?

Quando gli ho raccontato che ero stato violentato da un sacerdote, mi ha guardato in silenzio con le lacrime agli occhi. Poi mi ha abbracciato. Lui mi ha spinto a scrivere la mia storia e poi ha fatto la prefazione del libro.