Il tema dei minori transgender è tornato sotto i riflettori per delle richieste politiche di vietare determinati interventi medici. Parola a tre esperti
«J. ha 14 anni, si autolesiona per soffocare il dolore interno e pensa spesso al suicidio. Arriva a noi tramite le insegnanti di sostegno. Soffre per il suo nome anagrafico e per il corpo che cambia: sa di essere una persona transgender, ma il suo nome di elezione non l’ha mai pronunciato ad alta voce. Nel nostro spazio sicuro riesce finalmente a dirlo. Da quel momento inizia il suo percorso di accettazione, anche doloroso, a piccoli passi verso di sé». A raccontarci una fra le tante storie finora approdate a ‘Identità Plurale’ – piattaforma di Zonaprotetta dedicata ad ascolto, consulenza e sostegno di persone Lgbtqia+ del Canton Ticino – è l’operatore del servizio Davide Vasto, che rileva: «Riceviamo con regolarità richieste anonime da parte di giovani persone che percepiscono una discrepanza tra la propria identità di genere e il sesso assegnato alla nascita, così come da parte dei loro genitori o adulti di riferimento».
È un tema delicato e complesso, su cui tendenzialmente la conoscenza è poca e la confusione molta, quello dei bambini e adolescenti che sentono un disallineamento tra il proprio corpo e la propria identità di genere. Un argomento tornato al centro del dibattito pubblico il mese scorso dopo le richieste rivolte alla Confederazione dalla consigliera di Stato zurighese dell’Udc Natalie Rickli di vietare gli interventi chirurgici di “cambio di sesso” per i minori di 18 anni e di circoscrivere la somministrazione di bloccanti della pubertà al solo ambito di studi scientifici e ciò al fine, a suo dire, di tutelare i giovani da trattamenti giudicati troppo numerosi e avventati. In Ticino già lo scorso gennaio i granconsiglieri del Centro Giuseppe Cotti e Fiorenzo Dadò si erano rivolti al Consiglio di Stato con un’interrogazione dal titolo ‘Bloccanti della pubertà nei minori - È il momento di limitarne l’uso’, atto parlamentare a cui nel frattempo il governo ha fornito un’articolata risposta in cui rimarca che, in linea con le posizioni del Consiglio federale, “la diagnosi e il trattamento della disforia di genere nei minori rientrano nella responsabilità dei medici” e che “il quadro normativo e le linee guida attuali, costantemente rivisti alla luce delle nuove evidenze scientifiche, garantiscono un approccio responsabile e sicuro, in cui la protezione del benessere dei minori e il rispetto della loro capacità decisionale sono prioritarie”.
Per cercare di fare un po’ di chiarezza sul tema e capire come viene affrontato in Ticino dai professionisti che se ne occupano ci siamo rivolti a tre di loro.
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Che cosa innanzitutto si intende con l’espressione “disforia di genere” ce lo spiega il dottor Domenico Didiano, medico FMH specializzato in psichiatria e psicoterapia dell’infanzia e dell’adolescenza: «Nell’ultima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) viene definita come una marcata incongruenza tra il genere esperito/espresso da un individuo e quello assegnato alla nascita, associata a una sofferenza clinicamente significativa o a una compromissione del funzionamento in aree importanti della vita». L’approccio alla disforia di genere, evidenzia il dottor Didiano, si è evoluto in modo significativo nel corso degli anni: «Se in passato era classificata come una patologia, ora pur rimanendo nel DSM è considerata come una condizione che genera sofferenza e un forte desiderio di cambiamento». In Svizzera, indica il medico-psichiatra, non esistono dati precisi sulla prevalenza della disforia di genere, ma si stima che riguardi diverse migliaia di persone. «Ciò che si nota chiaramente negli ultimi anni è un aumento significativo delle richieste di consulto per questa condizione». Ciò che, spiega il nostro interlocutore, può essere attribuito a diversi fattori come una maggiore visibilità e accettazione sociale delle persone transgender (termine cappello per indicare persone la cui identità di genere differisce dal sesso assegnato alla nascita), una più grande disponibilità di informazioni online, un’accresciuta consapevolezza e disponibilità di trattamenti medici specifici, una destigmatizzazione della disforia di genere.
Per quanto riguarda tale condizione in età evolutiva, un aspetto cruciale da considerare è che in base agli studi di monitoraggio «l’80-90% dei bambini con comportamenti di genere atipici non persistono nella disforia di genere in adolescenza o età adulta», spiega il dottor Didiano. Per questo motivo è necessario che l’approccio con i bambini sia «cauto, attendista e basato sull’osservazione». Anche nell’adolescenza l’approccio dei professionisti «dovrebbe essere quello di ascoltare e accompagnare senza esprimere giudizi o opinioni, evitando di assegnare prematuramente etichette come “disforia di genere” o “transgender” per permette di lasciare aperta l’esplorazione, aiutando ragazzi e ragazze a riflettere sui propri conflitti psichici e la propria identità in senso molto più ampio che non solo di genere, per raggiungere una maggiore consapevolezza di sé». A differenza di quanto avviene nell’età infantile in cui non viene proposto alcun tipo di intervento, nell’età adolescenziale, in determinati casi «accuratamente selezionati – sottolinea il dottor Didiano – possono entrare in considerazione degli interventi medici endocrinologici che tuttavia devono procedere per gradi e ognuno accompagnato da un’attenta valutazione psicologica, famigliare e sociale».
Per comprendere le sfide psicologiche affrontate dalle persone transgender o gender variant è di fondamentale importanza prendere in debita considerazione il concetto di “minority stress” che, illustra il nostro interlocutore, designa lo stress cronico e specifico che le persone appartenenti a gruppi come minoranze sessuali, etniche, religiose subiscono a causa di pregiudizi, discriminazione, stigmatizzazione e rifiuto sociale: «Questi fattori contribuiscono a spiegare l’alto rischio di disagio psichico nelle persone transgender: la depressione colpisce fino al 50% degli adolescenti transgender; l’ansia fino al 30%; i comportamenti autolesivi fino al 40%; l’abuso di sostanze è 2-3 volte più frequente rispetto ai coetanei non transgender; e fino al 40% tenta il suicidio almeno una volta nella vita». Il supporto familiare, mette in evidenza Didiano, «è essenziale nel percorso di un giovane con disforia di genere. Studi recenti dimostrano che per i bambini e adolescenti con una varianza di genere che vivono una maggiore accettazione da parte dell’ambiente e della famiglia la probabilità di sviluppare una psicopatologia è uguale alla popolazione senza un’identità trans».
Recentemente, rileva lo psichiatra, «in Ticino abbiamo creato un gruppo multidisciplinare formato da psichiatri, endocrinologi e pediatri, e un gruppo etico, con l’obiettivo di affrontare ogni caso in modo coordinato, offrendo la soluzione più adeguata alla persona. Mentre sul piano nazionale, a livello della Società di psichiatria e psicoterapia svizzera infantile-adolescenziale abbiamo istituito un gruppo che inizierà i primi confronti nel prossimo autunno per approfondire il tema e per tenerci il più possibile aggiornati sulle evidenze scientifiche sul piano internazionale». Il trattamento della disforia di genere specialmente in età evolutiva, conclude il dottor Didiano, «richiede un approccio olistico, compassionevole e individualizzato. Come professionisti sanitari possiamo giocare un ruolo cruciale nel supportare le persone transgender e le loro famiglie continuando a formarci e sfidando i nostri pregiudizi e stereotipi. L’obiettivo è offrire un’accoglienza e un sostegno affinché questi giovani possano vivere la propria identità ed espressione di genere liberamente, senza ricevere rimproveri o provare vergogna, puntando a ridurne il disagio e a farli sentire supportati nel loro percorso verso l’autenticità e il benessere generale».
«Il nostro lavoro non consiste nel trattare il cambio di sesso, ma la sofferenza legata alla disforia di genere. E questo avviene in modo interdisciplinare». Si tratta di due aspetti che la dottoressa Martina Ruspa, medico del Servizio di endocrinologia pediatrica – ovvero quel ramo della medicina che si occupa di problematiche legate agli ormoni durante l’età evolutiva – dell’Ente ospedaliero cantonale (Eoc), tiene a mettere in risalto prima di risponde alle nostre domande.
Quali presupposti devono esserci affinché prendiate a carico un giovane che desidera allineare il proprio corpo alla propria identità di genere attraverso interventi ormonali?
Il nostro intervento avviene solo quando un paziente ha una diagnosi di disforia di genere fatta da un pedopsichiatra e quando il supporto psicologico non è stato sufficiente ad alleviare il suo disagio. L’approccio multidisciplinare che impieghiamo ha quale primo obiettivo aiutare la persona ad accettare sé stessa. Vale a dire che con un giovane che percepisce un’incongruenza tra la propria identità di genere e il proprio corpo biologico cerchiamo di capire se è in grado di accettare questa discrepanza e condurre una vita serena a livello sociale e scolastico. La maggior parte delle persone in questa condizione riesce a farlo, ma ce ne sono alcune che sviluppano un forte distress, ovvero una sofferenza emotiva e psicologica che può manifestarsi con ansia, disturbi alimentari, comportamenti autolesionisti o, nei casi più gravi, tentativi di suicidio. Ed è proprio questa sofferenza che porta alla diagnosi di disforia di genere.
Cosa significa concretamente prendere in carico un paziente con disforia di genere presso il Servizio di endocrinologia pediatrica?
Va innanzitutto detto che seguiamo un protocollo internazionale validato dalla Società europea di endocrinologia pediatrica (Espe). Il percorso inizia con un colloquio conoscitivo in cui, a seconda dell’età del paziente, spieghiamo le opzioni terapeutiche a disposizione. Dal punto di vista endocrinologico, queste si dividono in bloccanti della pubertà e in terapia affermativa di genere che prevede l’impiego di testosterone per il trattamento mascolinizzante e di estrogeni per quello femminilizzante. Il paziente è libero di accettare o meno queste opzioni. Se accetta di intraprendere un trattamento ormonale, un team multidisciplinare composto da un endocrinologo, un pedopsichiatra, uno psicologo e il comitato etico dell’Eoc si riunisce per valutare il caso. La decisione dipende da criteri medici, dalla capacità di discernimento del paziente e dal consenso di entrambi i genitori necessario per i minori di 18 anni. Pertanto è da sfatare l’idea che il minorenne arriva da noi e gli diamo gli ormoni: la procedura è molto più complessa, tant’è che dalle statistiche emerge che in media passano circa due anni tra la diagnosi di disforia e l’inizio di un eventuale percorso ormonale.
Come funzionano e quali sono gli scopi principali dei bloccanti della pubertà?
I bloccanti della pubertà sono dei farmaci che bloccano la produzione di gonadotropine, ovvero gli ormoni responsabili dello sviluppo dei caratteri sessuali secondari. Il loro uso è indicato per trattare la pubertà precoce, ma anche per “prendere tempo” con i pazienti disforici. La sofferenza psicologica, infatti, si aggrava quando iniziano a manifestarsi caratteri secondari che non si sentono propri. Questi farmaci sono dunque più efficaci se introdotti proprio nelle fasi iniziali di tale sviluppo, ma possono essere usati anche in fasi più avanzate poiché causano una regressione dei caratteri sessuali secondari. Sono somministrati attraverso iniezioni che vanno fatte ogni 15-30 giorni. Nelle persone AFAB (Assigned Female At Birth, ovvero nate femmine), una delle maggiori fonti di disforia è il ciclo mestruale così come la crescita del seno che vengono bloccati. Nelle persone AMAB (Assigned Male At Birth, ovvero nate maschio), l’obiettivo è soprattutto rallentare lo sviluppo della peluria, in particolare in faccia, e il cambiamento della voce.
I bloccanti sono dunque completamente reversibili? Sono sicuri? Quali effetti collaterali possono comportare?
Sì, i bloccanti sono completamente reversibili. Una volta sospesa la terapia, la pubertà riprende il suo corso da dove si era interrotta, con uno sviluppo assolutamente fisiologico e il giovane raggiunge l’altezza prevista dal suo patrimonio genetico. Sebbene ci siano pochi studi specifici sulla popolazione transgender, abbiamo molta esperienza con questi farmaci, usati da 40 anni per trattare la pubertà precoce. Tra gli effetti collaterali si riscontrano ad esempio un aumento dell’appetito e del peso e un potenziale sviluppo di osteoporosi se usati per più di tre anni. La nostra esperienza clinica ci permette di utilizzarli con un grado di sicurezza piuttosto alto.
Quando invece si ricorre alla terapia affermativa e come funziona?
Secondo il nostro protocollo, la terapia affermativa viene introdotta dopo 2-3 anni di utilizzo di bloccanti. Questo periodo serve alla persona stessa e a noi specialisti per valutare se il paziente ha effettivamente bisogno di intraprendere una transizione. Solo a questo punto, se la necessità è confermata, si propone questa terapia ormonale che come detto si basa sulla somministrazione di testosterone per le persone AFAB e di estrogeni per le persone AMAB. Anche in questo caso, la decisione è condivisa da un team multidisciplinare e richiede il consenso di entrambi i genitori per i minorenni, oltre alla capacità di discernimento del paziente. Il testosterone per la mascolinizzazione viene somministrato tramite iniezioni intramuscolari in ospedale, sotto il costante controllo dell’endocrinologo. Gli estrogeni per la femminilizzazione, invece, possono essere assunti in crema o pillole a casa, ma la terapia è monitorata con visite e analisi del sangue periodiche e ravvicinate.
Quali sono gli effetti e i rischi di queste terapie affermative? Cosa non è reversibile?
La terapia mascolinizzante ridistribuisce il grasso corporeo, aumenta la massa muscolare e la peluria, rende la voce più profonda, blocca le mestruazioni e atrofizza la vagina. Effetti collaterali rari possono includere insulino-resistenza, un sovraccarico epatico e un aumento della pressione. La terapia femminilizzante aumenta leggermente il seno, ridistribuisce il grasso sui fianchi e sui glutei, diminuisce la massa muscolare e la forza, ammorbidisce la pelle e riduce la peluria. Può comportare un rischio di eventi tromboembolici in soggetti predisposti, ictus o problemi cardiovascolari, e alterazioni del metabolismo dei grassi. Entrambe le terapie possono avere effetti sulla funzionalità sessuale, diminuendo pure la libido. Ciò che risulta non reversibile è la fertilità. Per questo motivo, prima di iniziare la terapia, consigliamo una consulenza di fertilità per valutare la crioconservazione di gameti. Sebbene ci siano stati casi in cui persone che hanno interrotto la terapia sono riuscite ad avere figli, non è una certezza.
Alcuni Paesi del Nord Europa stanno facendo marcia indietro su queste terapie, limitandone l’uso. Qual è il suo parere?
È vero che in alcuni Paesi si sono fatte delle retromarce. Ma bisogna ponderare attentamente i rischi. Come già evidenziato il nostro obiettivo è trattare la sofferenza legata alla disforia di genere e se non prendiamo in carico questi ragazzi in modo strutturato, il rischio di complicazioni, incluso il suicidio, aumenta in maniera significativa. Secondo recenti studi europei, il tasso di tentativi di suicidio tra gli adolescenti con disforia di genere si attesta intorno al 40%, a fronte dell’11% nella popolazione generale della stessa età. Il suicidio di un adolescente ha un impatto devastante su famiglie, amici, scuola e l’intera comunità. Come Eoc siamo convinti della necessità di offrire supporto a questi giovani e alle loro famiglie, riducendo i comportamenti a rischio e offrendo loro un percorso di cura sicuro e controllato.
Qual è invece la politica dell’Eoc rispetto agli interventi chirurgici su minori?
La chirurgia di transizione è il solo trattamento veramente irreversibile e in Ticino per politica dell’Ente ospedaliero non viene fatta sotto i 18 anni anche se la Commissione nazionale d’etica per la medicina umana, come si legge nel documento ‘Traitement médical des personnes mineures présentant une dysphorie de genre - Considérations éthiques et juridiques’, approva la possibilità di eseguirla già dai 16. A titolo informativo va comunque considerato che i dati generali relativi alla chirurgia di riassegnazione sono molto più bassi rispetto a quelli sulle terapie ormonali. Significa che non tutte le persone transgender si operano. La pratica principale è la rimozione del seno in quanto questo è molto disforico per il fatto di essere visibile, ma le falloplastiche e le vaginoplastiche sono poco frequenti.
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«Essere ascoltati e presi sul serio. E poter parlare in uno spazio sicuro e accogliente». Sono queste le principali esigenze manifestate dai giovani transgender che si rivolgono a Identità Plurale, riprende a spiegarci l’operatore del servizio Davide Vasto: «Dalle consulenze emergono spesso difficoltà relazionali con la famiglia o con il contesto scolastico, oltre a vissuti legati a transfobia e discriminazione. Questi ultimi, uniti a micro-invalidazioni o situazioni di emarginazione, vengono segnalati sia all’interno della famiglia che in contesti educativi o tra pari». In molti casi, mette in luce Vasto, tali esperienze «generano un senso di isolamento o malessere che si ripercuote sul vissuto delle giovani persone e sull’intero nucleo familiare. Il nostro compito, in questi casi, è offrire uno spazio di ascolto, rassicurazione e orientamento, sia per i genitori sia per le giovani persone coinvolte, promuovendo un accompagnamento informato e rispettoso». I genitori, da parte loro, «arrivano da noi soprattutto in cerca di strumenti di comprensione e accompagnamento rispettoso. A volte ci contattano in una fase iniziale di confronto con l’identità di genere espressa dalla giovane persona, e sentono il bisogno di capire come accompagnarla senza giudicare o fare passi sbagliati. Affiorano spesso anche preoccupazioni relative al benessere psicologico e sociale dei propri figli e timori legati alle reazioni negative, al giudizio e allo stigma da parte del contesto sociale o scolastico. E poi c’è un bisogno di orientamento per quel che concerne i percorsi possibili, talvolta anche sul piano legale o medico».
Rispetto al passato, dall’osservatorio di Identità Plurale, dice il suo operatore, si riscontra una maggiore visibilità e consapevolezza sul tema dell’identità sessuale in Ticino. Tuttavia, come confermano anche i dati dello Swiss Lgbtiq+ Panel e della recente ricerca promossa da Queeramnesty, “l’accettazione” delle persone trans e non binarie – vale a dire che non si identificano esclusivamente come uomo o donna – resta più fragile rispetto ad altre minoranze sessuali. È vero che negli ultimi anni si sono registrati alcuni segnali positivi, afferma il nostro interlocutore, «come l’apertura di spazi di dialogo nelle scuole, l’aumento dell’informazione e i cambiamenti normativi che facilitano il riconoscimento legale del genere. Ma nonostante questo, pregiudizi e resistenze persistono, soprattutto quando si passa dal piano teorico a quello concreto delle relazioni quotidiane. In Ticino, come altrove, si avverte ancora una certa fatica a riconoscere pienamente la legittimità dell’identità vissuta da giovani persone trans o non conformi al genere atteso».
Più nello specifico, anche da parte di singoli professionisti che operano all’interno di contesti istituzionali come la scuola, «negli ultimi tempi, pure in Ticino, c’è stato un aumento di sensibilità e interesse rispetto al tema dell’identità di genere – indica l’operatore di Identità Plurale –. In diverse occasioni sono stati proposti momenti di formazione e aggiornamento, che hanno permesso di ampliare le conoscenze e le competenze per promuovere approcci più rispettosi e inclusivi. Anche qui però, nonostante questi sviluppi positivi, permangono pregiudizi e rigidità, spesso legati a una scarsa familiarità con la complessità delle identità sessuali. Come sottolinea la sociolinguista Vera Gheno – cita Vasto – “il pregiudizio nasce dove manca la conoscenza” e può essere superato solo attraverso il confronto, l’ascolto e un linguaggio più consapevole. È quindi fondamentale continuare a investire nella sensibilizzazione, non solo con formazioni, ma anche creando spazi in cui si possa parlare di identità sessuale in modo informato e rispettoso. Azioni che aiutano a scardinare stereotipi radicati e a costruire contesti più accoglienti».
Benché siano stati fatti alcuni passi importanti anche nel supporto ai giovani con disforia di genere e alle loro famiglie nel nostro cantone, persistono ancora lacune, dice il nostro interlocutore: «L’accesso a figure professionali adeguatamente formate sul piano medico, psicologico ed educativo non è sempre omogeneo, e può variare sensibilmente a seconda del territorio o del servizio di riferimento».
Uno dei bisogni più impellenti è pertanto la creazione di «percorsi più strutturati e coordinati, che offrano continuità e accompagnamento sia alle giovani persone sia agli adulti che le sostengono». In altri contesti, indica Vasto, sia in Svizzera tedesca che in alcuni Paesi europei, «esistono modelli più consolidati in cui scuola, sanità e servizi sociali collaborano in rete, con figure di riferimento esplicitamente formate sui temi legati all’identità di genere. Tuttavia anche in Ticino si stanno compiendo sforzi, e Identità Plurale sopperisce in parte alle lacune fungendo da filtro e orientando verso professionisti e servizi competenti». Sarebbe al contempo importante «rafforzare il sostegno anche sul piano preventivo oltre che informativo – è l’auspicio con cui conclude Vasto – così da alleggerire il carico emotivo e pratico che spesso ricade interamente sulle famiglie».