C'è chi ingabbia e tortura la democrazia liberale e poi ci resta male se non risponde ai comandi
Uno scienziato cattura una cavalletta, le strappa una zampa e poi le ordina: “Salta!”. La cavalletta salta. Lo scienziato le strappa un’altra zampa, ripete l’ordine e l’animale, con fatica, salta di nuovo. Il sadico esperimento prosegue finché lo scienziato non strappa anche l’ultima zampa. “Salta!”, ordina ancora, e finalmente l’insetto resta fermo. Lo scienziato allora estrae il suo taccuino e appunta: “Le cavallette, quando strappi loro le zampe, diventano sorde”.
Questa storiella, di incerta attribuzione, illustra bene il nostro rapporto con la democrazia liberale: la ingabbiamo, la torturiamo, la mutiliamo, e poi ci restiamo male se non risponde ai comandi.
Ultimo esempio la condanna al carcere e all’ineleggibilità di Marine Le Pen, fermata a un passo dall’Eliseo (va detto che i commentatori la danno a un passo dall’Eliseo da circa tre lustri, denotando un senso delle distanze ben strano) da una storiaccia di fondi europei malversati, o a seconda dei punti di vista da una congrega di giudici eversori. “Je suis Marine”, ha twittato Viktor Orban, accostando per la proprietà transitiva la magistratura francese al commando di terroristi che nel 2015 fece irruzione nella redazione di Charlie Hebdo. “Una dichiarazione di guerra dell’Unione europea” ha tuonato Matteo Salvini, le cui sparate sempre più spesso assomigliano a certi haiku: talmente incongrue sul piano della realtà e della grigia sintassi che a un livello più astratto fanno quasi riflettere.
Il tema, però, pare ormai ineludibile: da Roma a Parigi, da Washington a Budapest, c’è uno schieramento che guida o aspira a guidare il mondo libero al quale della democrazia piace molto la fase elettorale, forse perché sente di poterla influenzare con media affini, e molto meno il sistema di pesi e contrappesi che impedisce a chi è stato eletto di fare quello che gli pare e piace. Curiosamente è lo stesso schieramento che campa politicamente di riflessi d’ordine, fantasie militaresche, demagogie dell’ordine pubblico, feticismi sociali di manette, gabbie e sfollagente, e poi si trasforma in una schiera di epigoni di Émile Zola quando il gladio di Themis si abbatte su un loro simile. Questa idea di giustizia per fasce di reddito è un tratto di quella visione censitaria della società che è il vero programma materiale di queste destre, che non a caso sul terreno di un malinteso “garantismo” ricevono spesso la solidarietà di mondi “liberali” che forse non hanno una prospettiva così dissimile.
Possiamo chiamarla democrazia illiberale o plebiscitaria, il risultato è comunque che qualsiasi intervento di parti terze e di garanzia, dalle organizzazioni internazionali alla magistratura, è vissuto (e quando possibile contrastato) come un tentativo di golpe.
Il grande disegno democratico, va ricordato, aveva previsto un antidoto formidabile al problema: i buoni vecchi partiti, i quali, oltre a consentire talvolta di fare politica anche a chi non avesse alle spalle un grande patrimonio o un impero mediatico, mitigavano ingegnosamente i potenziali conflitti tra potere politico e giudiziario. Se a un leader capitava un inciampo con le forze dell’ordine, molto semplicemente il partito – vero depositario del consenso e plesso della rappresentanza – sceglieva un altro leader, senza bisogno di gridare al golpe.