La nuova Legge sul servizio civile: ancora una scelta politica che recide quei fili vitali che ci tengono insieme come società
È una revisione legislativa che rischia di sfilacciare un tessuto sociale già lacerato quella sul servizio civile che il Consiglio federale intende far entrare in vigore il prossimo 1° gennaio. Volta a limitarne l’accesso in particolare a chi è già stato incorporato nell’esercito, prevede un significativo calo di ammissioni, ciò che per alcuni istituti d’impiego che accolgono civilisti potrebbe tradursi nel venir meno di importanti prestazioni fornite a persone vulnerabili. Tra queste prestazioni, gli interventi individuali basati su una risorsa tanto rara quanto preziosa: il tempo. Quello per condividere un’attività all’aperto, una lettura, un evento offerto dalla comunità in grado di far uscire per un po’ dalla routine di un istituto per persone con disabilità, anziane o malate, da quella domestica o di un laboratorio. Tempo che di riflesso diventa anche quello restituito per far tirare il fiato ai familiari che di queste persone si prendono cura nel quotidiano, coloro che spesso provano una sofferenza a cui pochi pensano, come ci fa notare un civilista. E proprio accorgersi di chi fa fatica, mettersi nei suoi panni e imparare a relazionarsi con la diversità di condizioni e modi di stare al mondo è una tra le competenze acquisite più apprezzate dai giovani che approfittano del servizio civile per fare incursioni in settori come quello sociosanitario, spesso lontano dai progetti professionali maschili.
Nella consultazione sulla revisione della Legge, la voce dei contrari si era levata per biasimare lo smantellamento di un servizio ritenuto colpevole di sottrarre forze all’esercito: un errore di prospettiva in quanto la scarsa attrattività del settore grigioverde starebbe nella sua stessa struttura. Da un recente studio sui motivi che portano i militi a passare dall’esercito al servizio civile emerge infatti che, rispetto al secondo, il primo è considerato meno utile e meno conciliabile con la vita privata. Un’insoddisfazione di fondo che difficilmente potrà essere eliminata dalla riforma e che anzi potrebbe sfociare in altre forme di allontanamento dal militare, come la ricerca di esenzioni mediche per l’esonero tout court, a discapito dunque della collettività. Sarà da verificare quanto le nuove misure riusciranno a risollevare le sorti dell’esercito. È per contro concreto il pericolo di indebolire ulteriormente ambiti professionali già sotto pressione, alle prese con risorse limitate e casi sempre più complessi da gestire.
L’applicazione della riforma è alle porte, a meno di un poco probabile nuovo stop dal parlamento (era successo nel 2020) o di un referendum, ma le preoccupazioni degli istituti d’impiego invitano a riflettere sul tipo di mondo che le decisioni della maggioranza politica stanno modellando. Mentre sul tavolo c’è un voluminoso pacchetto del governo pieno di forbici per riportare in equilibrio il bilancio della Confederazione, la Commissione della politica di sicurezza del Consiglio nazionale chiede di destinare all’esercito un miliardo di franchi supplementare per l’acquisto di munizioni. Di fronte a tale notizia, alcuni giorni fa su queste colonne il direttore artistico delle Giornate di Soletta Niccolò Castelli si chiedeva: cosa significa davvero difendere un Paese, una comunità, un’identità? “Con un miliardo potremmo raddoppiare il sostegno alla cultura”, la quale – scriveva –, mettendo in risalto le differenze e favorendo il dialogo, è quanto più si avvicina all’idea di non belligeranza. “Con quel miliardo potremmo raddoppiare il futuro”. E invece i nostri condottieri politici, mentre ci corazzano (ma poi davvero?) contro ipotetiche minacce esterne, affilano le lame per recidere quei fili vitali che ci tengono insieme come società. Riempiendo, di fatto, il futuro di crepe.