L’abbraccio burocratico ma poco affettuoso di Mamma Elvezia ai minori non accompagnati. Troppo isolati dai coetanei. E c’è chi si toglie la vita
Piccoli migranti intrappolati in ragnatele di morte. Dopo un viaggio disseminato di pericoli – tra carceri libiche, barconi sovraffollati, chilometri di autostrada aggrappati sotto i camion – centinaia di adolescenti, soli e vulnerabili, arrivano in Svizzera. Giungono stremati, rotti dentro, attirati da un unico pensiero, quello della terra promessa. Quando finalmente ce l’hanno fatta, sentono di poter abbassare la guardia perché tutto si andrà sistemando. Ma tra le braccia di mamma Elvezia ad attenderli ci sono nuove sfide. Troppo grosse per due di loro, che dopo tanto resistere sono morti, invece di iniziare una nuova vita.
Due decessi nel giro di un mese sono troppi! Entrambi alloggiavano al Centro federale d’asilo a Pasture. Aziz, 14 anni originario dell’Algeria: è stato trovato la sera di lunedì 31 marzo senza vita sul greto del Riale Raggio, a Balerna, a pochi metri dal Centro federale. Mancava da tre giorni. E ancora non è chiaro cosa ci facesse in giro da solo e che cosa sia accaduto. Un paio di settimane più tardi, martedì scorso, un 20enne giunto qui dal Guatemala è salito sul parapetto del cavalcavia sopra via Favre, in centro a Chiasso, e si è lasciato cadere sulla strada.
Con tenacia avevano raggiunto la loro terra promessa... per morirci. Come mai Per trovare risposte abbiamo parlato con chi ci è passato. Come l’artista e traduttrice Isabel Lunkembisa, che aveva 13 anni quando è arrivata sola in Svizzera. Per un anno, racconta, si è sentita invisibile. L’aspettativa era alta, ma la realtà elvetica era tutt’altro: tante buone opportunità per studiare e formarsi, ma un deserto emotivo. Tante regole da imparare, orari da rispettare, ma poca comprensione per la cultura dell’altro. Dice senza troppi giri di parole: ‘Se non sei forte, questo Paese ti ammazza psicologicamente’. Del resto, lo evidenziano pure studi internazionali: dal 30 al 40 per cento dei rifugiati e dei richiedenti l’asilo soffrono di disturbi post-traumatici e altri disturbi psichici.
Quando un minore solo bussa alla porta della Svizzera chiedendo aiuto non viene affidato – a differenza di ciò che accade in alcuni Paesi europei – a una famiglia disponibile, a un foyer, ma viene alloggiato nei Centri federali d’asilo, come quello di Pasture, in attesa di sapere se potrà rimanere. Uno stabile discosto dai centri abitati, circondato da filo spinato e con delle reti a cingere i balconi, certamente funzionale e pulito, con infermieri, educatori e aule scolastiche all’interno, ma ‘asettico’ e con orari di rientro serali persino più restrittivi rispetto ad altre strutture federali. Unica isola di felicità: un campetto da calcio. Come devono sentirsi accolti questi ragazzi, isolati dal resto del mondo giovanile? Anche l’istruzione avviene lì dentro, in una bolla artificiale, fatta di ansia e timori per il fallimento della loro procedura d’asilo, lontano dal conforto di mamma e papà, lontano dai coetanei, preziose ancore di salvezza nell’adolescenza. Eppure la Svizzera ha sottoscritto la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia: in uno di questi si parla del diritto (a loro negato) all’integrazione.
“Accogliere – ha ricordato don Giusto della Valle, parroco di Rebbio, alla cerimonia in memoria di Aziz – è un discorso di umanità”. Questi ragazzi, ha detto, “sembrano forti perché passati alcuni attraverso il carcere libico, ma con una fragilità interiore dovuta al distacco dai genitori”.
Ridiamo, almeno da morti, dignità a questi due giovani che la Svizzera non ha saputo accudire. Chiediamoci: li stiamo accogliendo con umanità, come fossero figli nostri?