laR+ IL COMMENTO

Come vendere la fontana di Trevi

L’accordo sullo sfruttamento dei minerali rari è una mossa abile dell’Ucraina, ma per gli Stati Uniti vale la candela?

In sintesi:
  • La firma indica ai russi che Washington e Kiev stanno già pensando al domani
  • Ora sta al Cremlino valutare se questo è il momento giusto per fermarsi e voltare pagina
Il segretario del Tesoro statunitense Scott Bessent firma l’accordo con la vicepremier e ministra dell’Economia ucraina Yulia Svyrydenko
(U.S. Department of the Treasury))
2 maggio 2025
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Dopo un interminabile tira e molla, Stati Uniti e Ucraina hanno concluso il famoso accordo sullo “sfruttamento dei minerali rari”. Potenzialmente la firma è stata una vittoria per Donald Trump, almeno agli occhi dei suoi sostenitori. Il presidente Usa è riuscito infatti – stando alla narrativa ultraconservatrice d’oltreoceano – a iniziare a rientrare delle centinaia di miliardi di dollari, dati da Joe Biden a Volodymyr Zelensky, sotto forma di aiuti militari dal 2022 al gennaio 2025. Ma è realmente così? Cosa significa questo accordo Washington-Kiev nell’ottica più generale del conflitto russo-ucraino? Faciliterà esso la pace?

Conoscendo gli ucraini da vicino e avendo osservato sorpreso le tecniche di negoziazione dell’Amministrazione Trump, la sensazione più immediata è stata che Kiev sia riuscita nell’impresa di vendere agli americani “la fontana di Trevi”, come in un film di Totò. È vero, l’Ucraina è un Paese ricco di risorse. Ad esempio, qui sono concentrati una quantità enorme di terre nere, carbone e ferro a volontà. Secondo il World Economic Forum, la repubblica ex sovietica ha circa 20mila depositi di minerali di 116 tipi, ma solo il 15% dei siti erano sfruttati all’epoca dell’inizio dell’“Operazione militare speciale” di Putin.

In particolare i considerevoli giacimenti di litio sono ancora largamente inutilizzati soprattutto per mancanza di investimenti. Sfruttare queste risorse oggi è difficile (dal punto di vista tecnico) e costoso, come assicurano i più recenti studi specialistici. Ne vale poi la candela? Ma se Trump voleva la “fontana di Trevi”, perché non dargliela? Soprattutto se Kiev, come sappiamo, dipende pesantemente dall’intelligence Usa per le informazioni e dai sistemi difensivi anti-missile, al momento non sostituibili con quelli europei.

Probabilmente gli amici miliardari del tycoon – alcuni nominati inviati presidenziali – hanno scoperto grazie all’intelligenza artificiale che l’Ucraina aveva numerosi di questi introvabili “minerali rari”, il cui controllo oggi è a livello mondiale nelle mani dei cinesi, gli arci-avversari degli ultraconservatori Usa. Se si sfoglia l’accordo appena siglato – stando ai documenti mostrati da Kiev – si scopre che gli ucraini sono stati assai abili, garantendosi un Fondo di investimento (pieno dei futuri profitti, se mai ce ne saranno) da usare in casa propria – per la propria ricostruzione infrastrutturale – e ricevendo assicurazioni scritte che l’intesa non intralcerà la loro integrazione in Europa. Bingo!

Tornando agli interrogativi posti, in una trattativa classica per fermare il conflitto le possibilità di successo sarebbero minime o nulle. Troppo alti sono i muri geopolitici da abbattere. Il ministro russo Lavrov continua appunto a ripetere che la fretta non è buona consigliera e che “i problemi sono complessi”. Ma qui siamo alla ricerca del miracolo, della pace, attraverso una trattativa “sui generis”, “alla Trump”, basata sul business. L’accordo firmato indica ai russi che Usa e Ucraina stanno già pensando al domani. È venuto il tempo, questo il messaggio, di riempire i portafogli di dollari e svuotare gli obitori di cadaveri. Sta al Cremlino valutare se questo è il momento giusto per fermarsi e voltare pagina. La Casa Bianca e la Bankova hanno mostrato la strada.