Quel che sta accadendo in Romania ci ricorda quanto sia difficile per i Paesi dell'Est liberarsi dell'influenza russa e di vecchi schemi antidemocratici
Nel piccolo museo del comunismo di Poznan, in Polonia, ci sono dei contenitori cilindrici con dei buchi simili a zuccheriere. Da quei buchi, però, non esce zucchero, ma gli odori di un passato che non c’è più. Se sollevi il tappo puoi sentire salire nel naso un caffè forte di bassa qualità, il detersivo con cui le mamme polacche lavavano i panni, un profumo da donna e un pervasivo succo d’arancia chimico, tipico di chi le arance vere le vedeva solo a Natale. Gli stessi odori per ogni famiglia. Un ricordo condiviso che vale per tutti e tutti accomuna. Infatti il turista straniero passa oltre, mentre i polacchi indugiano, chiamano la moglie, la mamma, il figlio, l’amico e si perdono in quella nostalgia di tempi andati, teneri eppure terribili.
Negli stessi anni in cui nelle loro case si spandevano quegli odori, la dittatura del generale Jaruzelski applicava la legge marziale facendo ripiombare nel terrore un Paese che si era illuso di rivedere la luce – e la libertà – dopo la travagliata nascita di Solidarnosc, il primo sindacato libero di tutto il blocco comunista. Costretto a operare in clandestinità, Solidarnosc contribuì infine alle prime elezioni libere in uno Stato in orbita sovietica, tenutesi il 4 giugno 1989 (lo stesso giorno delle proteste di piazza Tienanmen, esattamente cinque mesi e cinque giorni prima della caduta del Muro di Berlino) e poi stravinte proprio dai candidati del sindacato nel frattempo diventato partito.
Non è un caso che oggi sia proprio la Polonia, guidata dall’europeista Donald Tusk, il Paese dell’Est capofila del sentimento antirusso insieme alle Repubbliche baltiche (Lettonia, Estonia e Lituania), che dell’Urss erano parte integrante. Aver vissuto sulla propria pelle le privazioni di quel comunismo disumano potrebbe far pensare che aiuti a riconoscere prima i pericoli che porta con sé un regime autocratico come quello di Vladimir Putin. Non è così. La Polonia stessa, per anni guidata dagli illiberali gemelli Kaczynski, è rimasta fedele a un modello fortemente autoritario. E possiamo fare infiniti esempi, dalla fascinazione dell’ex Germania Est per l’ultradestra di AfD all’Ungheria di Orbán, che crede nella democrazia solo quando deve ottenere fondi da Bruxelles.
In questo solco rientra ciò che sta accadendo nella Romania del fu dittatore Ceausescu, che ha voluto fortemente l’Europa (e la Nato) per poi spostarsi sempre più verso un nazionalismo chiuso e retrogrado che infatti piace tanto ai russi (che lo finanziano, come già dimostrato nelle elezioni presidenziali del novembre scorso, poi annullate). La vittoria al primo turno del candidato di ultradestra George Simion (40% a fronte del 21% raccolto dal suo avversario nel prossimo ballottaggio, l’europeista Nicusor Dan) dimostra che queste spinte da e verso la Russia e verso modelli antidemocratici sono una realtà ineluttabile. Ben più pericolose a Est rispetto a dove fanno proseliti i Salvini e le Le Pen, che operano dentro democrazie – fino a prova contraria – più solide e impermeabili alle interferenze di Mosca.
La Romania attratta dall’autoritarismo e la Polonia aggrappata all’Ue dopo averla boicottata dall’interno per anni non sono altro che due facce della stessa medaglia. Paesi costretti per storia e vicinanza geografica a dover convivere con i veleni russi, in parte entrati nel Dna, in parte iniettati dalla propaganda recente di Putin. Sembra facile uscirne. Ma l’antidoto, come accade in natura, si ricava dal veleno stesso. E trovare il giusto dosaggio finora è stato più difficile del previsto, con effetti collaterali sotto gli occhi di tutti.