Sorge il sospetto che nella pokeristica visione del mondo di Trump il negoziato non sia il mezzo ma il fine
“Non dobbiamo mai negoziare per paura, ma non dobbiamo mai aver paura di negoziare”. Questo celebre passaggio del discorso di insediamento di John Fitzgerald Kennedy pare aver profondamente ispirato il suo più discosto succedaneo, Donald J. Trump. Nei primi cento giorni del suo mandato, da poco trascorsi, si può dire che Trump non abbia fatto altro che imporre, proporre, ospitare e prescrivere negoziati ai leader di mezzo mondo, al punto da far sorgere il sospetto che nella sua pokeristica visione del mondo il negoziato non sia il mezzo ma il fine, come se far sapere a tutti che in città c’è un nuovo sceriffo fosse più importante e soprattutto gratificante che impolverarsi per davvero sulle tracce dei ladri di cavalli. I risultati, infatti, che si parli della fine della guerra in Ucraina, del nucleare iraniano, di migranti coi Paesi confinanti o di dazi con gli altri grandi attori dello scacchiere geopolitico, raramente hanno la stessa portata sismica delle reboanti dichiarazioni che li precedono.
Ultima riprova un paio di giorni fa a Ginevra, in un consesso che sembra aver gratificato più che altro l’orgoglio neutralista elvetico, dove alla fine la montagna della guerra commerciale alla Cina, che per mesi aveva suggerito ai commentatori le più fosche previsioni, ha partorito il topolino dell’ennesima sospensione (parziale, in questo caso) di 90 giorni. Una prassi ormai collaudata, che conduce al sospetto che il modus operandi dell’irruente tycoon non si discosti di molto da quelli che si cacciano nelle risse gridando agli amici: “Tenetemi!”, da almeno cinque passi di distanza dall’avversario. Si potrebbe dire che le minacce di Trump stanno perdendo credibilità, ma anche questa sarebbe una valutazione miope: al bullo non interessa che le sue minacce siano credibili, gli interessa che facciano paura, che è tutta un’altra cosa.
Le spiegazioni per questa condotta apparentemente irrazionale da parte dell’uomo più potente del mondo in realtà ci sono, e come spesso accade con i fenomeni che ci riguardano troppo da vicino sono tutte giuste e tutte insufficienti: da un lato Trump sta mettendo in pratica la strategia teorizzata tempo fa da Steve Bannon di ingozzare media e avversari fino a stordirli (solo nelle ultime 72 ore, il presidente e il suo consigliere di fiducia hanno promesso di riaprire Alcatraz e definito “truccata” l’elezione del nuovo papa: mancano per ora all’appello l’area 51 e il codice Da Vinci, ma non mettiamo limiti alla fantasia), dall’altro prova a fare come quei commercianti che alzano i prezzi del 50% per poi prenderti sotto braccio e proporti, in via del tutto eccezionale, uno sconto del 40%.
Tutto vero, ma a un livello più profondo l’improvvisazione trumpiana è uno specchio, non molto lusinghiero, di una stagione della nostra democrazia che forse si interpreta meglio con gli strumenti della neurochimica che con quelli della politica tradizionale, nella quale infatti i politici più spregiudicati e vincenti misurano l’efficacia delle proprie azioni quasi più con le unità di misura della dopamina e del cortisolo che con quelle del Pil o del progresso globale. Quanto potrà durare questa specie di rave party ormonale di massa? Difficile dirlo. Certamente Trump non mollerà facilmente l’unica strategia che gli permette di proseguire, al governo, il bombardamento cognitivo delle sue campagne elettorali. Gioverebbe forse che fossero altri attori a interrompere il concerto del pifferaio, piantandola per esempio di spacciare per febbrili vertici diplomatici quelli che ne sono ormai a tutti gli effetti delle parodie.