laR+ IL COMMENTO

La frana nel castello di sabbia del Cremlino

Putin, concentrato com’è sullo spazio ex sovietico, si affida disperatamente ora a Trump, sperando di salvare il salvabile in Iran

In sintesi:
  • Israele diventerebbe nell’area la potenza di riferimento assieme alla Turchia, all’Arabia Saudita e ai Paesi del Golfo
  • Russia e Cina finirebbero fuori dai giochi
  • Il 79enne Trump continua a ragionare come Putin
(Keystone)
21 giugno 2025
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Se dopo 46 anni dovesse concludersi l’esperienza della Repubblica islamica, quali sarebbero i nuovi scenari regionali? E quali quelli geopolitici di più ampio respiro? In Iran il regime degli ayatollah barcolla. Fonti diverse parlano di possibile prossima fuga della Guida suprema, Ali Khamenei. Certamente, il filo-occidentale Israele diventerebbe nell’area la potenza di riferimento assieme alla Turchia, all’Arabia Saudita e ai Paesi del Golfo. Trionferebbe pertanto la linea di normalizzazione nelle relazioni tra gli Stati della regione, definita negli ‘Accordi di Abramo’ del 2020. Il “pericolo sciita”, che incuteva timore soprattutto dopo gli attacchi degli Houthi alle navi all’ingresso del Mar Rosso, ne uscirebbe ridimensionato.

Il colpo più duro, tuttavia, verrebbe incassato da Russia e Cina che finirebbero fuori dai giochi, anche se l’isolazionista Trump alla fine dovesse decidere di non intervenire militarmente per assestare il Ko definitivo. Ecco la ragione per cui nelle stanze dei bottoni a Est tremano i polsi, e della quale i presidenti Putin e Xi hanno parlato a lungo al telefono. Mosca perderebbe una “partnership” speciale con Teheran che le ha garantito – ad esempio – a partire dal 2022 una fondamentale fornitura di droni, utilizzati in Ucraina. Pechino non riceverebbe più approvvigionamenti di petrolio a prezzo super scontato. L’ex “impero celeste” acquista oggi circa il 90 per cento della produzione degli ayatollah. Dallo stretto di Hormuz, che Teheran potrebbe chiudere alla navigazione, transita poi il 30% del volume totale del petrolio importato nel mondo dalla Cina. Sia per i russi sia per i cinesi il passo falso sarebbe grave. Forse gravissimo per Vladimir Putin, che ha appena perso l’alleato storico regionale – la Siria degli Assad – sostenuta da lui clamorosamente nel settembre 2015 con l’invio di aerei, navi e truppe. Dopo quasi 6 decenni il Cremlino non avrebbe più influenza diretta sul Medio Oriente e meno varrebbe la “riconquista” della Crimea, una delle cause della tragedia ucraina. Dalla “penisola contesa” vi è strumentazione in grado di controllare una fetta dello spazio aereo mediorientale e, se necessario, Mosca sarebbe in grado di colpire chiunque in un largo raggio d’azione. A livello internazionale Putin non potrebbe inoltre più contare sul regime degli ayatollah, da sempre anti-occidentale. Ecco perché la diplomazia federale sta tentando di salvare il salvabile dopo che anche la presenza di Mosca in Caucaso è stata compromessa dalla vittoria in Nagorno-Karabakh, nel novembre 2023, dei turcofoni azeri sugli armeni.

In breve: come un castello di sabbia sta franando l’architettura geopolitica nel “vicino estero” di Putin, concentrato com’è sullo spazio ex sovietico. Il Cremlino si affida così disperatamente ora a Trump, sperando in Iran in un qualche ruolo da mediatore, ma l’israeliano Netanyahu non ne vuole sapere, poiché adesso troppo grande è l’occasione di far saltare quella diga che, per decenni, si è opposta alla composizione del mosaico mediorientale come inteso dall’occidente. Il 79enne Trump continua, però, a ragionare – come Putin – sulla base di concezioni riferibili alle potenze del Ventesimo secolo. Il problema è che i tempi sono cambiati e oggi nuovi giocatori si sono affacciati sul palcoscenico internazionale.