Tel Aviv possiede almeno 90 testate nucleari di cui nessuno chiede mai conto. L’Iran ancora non ce l’ha (e meno male), ma questo squilibrio va discusso
Il senso di vulnerabilità che ha investito Israele il 7 ottobre 2023 (con l’atroce attacco di Hamas) non è dissimile dalla sensazione di fragilità avvertita dagli Stati Uniti con l’offensiva jihadista dell’11 settembre 2001 (i simultanei attacchi a Torri Gemelle e Pentagono). Il conseguente terrore fu pessimo consigliere. Sia quello statunitense, che decise l’occupazione di Iraq e Afghanistan (alla fine, due sconfitte militari non dissimili dal Vietnam); sia quello israeliano, con una mega rappresaglia che ha inflitto allo Stato ebraico il maggior isolamento internazionale della sua storia. Problema esistenziale, vivere o morire, si è difeso Netanyahu, che ha scatenato tutta la sua forza militare aprendo e colpendo con successo su ben sette fronti, facendo decine di migliaia di vittime civili, città sventrate, confini rimodellati.
Tuttavia, in questa ‘guerra santa’ per la propria sopravvivenza, né Tel Aviv, né i suoi alleati (non solo americani) hanno mai evocato ufficialmente Israele quale unica potenza atomica della regione. Lo ha fatto soltanto il ministro ‘per la tradizione ebraica’, Amichay Eliyahu, nel novembre 2023, subito redarguito e sospeso dal suo premier. Ma la follia di Eliyahu è quantomeno servita a ufficializzare per la prima volta la disponibilità di un armamento atomico da parte di Israele. Realtà mai ammessa ufficialmente dai governi israeliani, di destra o laburisti.
Un paradossale ‘segreto di Pulcinella’, basato su un accordo sottoscritto con gli Stati Uniti dopo che, con la decisiva partecipazione della Francia di de Gaulle, fra il 1957 e il 1958, a Dimona, nel deserto del Negev, fu impiantato un reattore nucleare fornito di tecnologia trasportata clandestinamente dalla centrale francese di Marcoule. Dal 1960 gli americani cominciarono a monitorare il sito con gli U-2 in dotazione alla Cia. In cambio, Israele ottenne una sorta di licenza per eliminare scienziati nucleari nei Paesi islamici e colpire siti atomici sospetti, dall’Iran alla Siria all’Iraq. Oggi Israele possiede, come minimo, 90 testate atomiche. Un arsenale che secondo gli specialisti non è estraneo al fatto che il suo esercito venga lanciato in operazioni militari oltreconfine e anche nei territori occupati palestinesi, con un senso di chiara impunità internazionale. In sintesi: Israele possiede il più forte esercito del Medio Oriente (spende 50 volte di più per gli armamenti che non l’Iran) e ha nell’atomica una carta supplementare che nessuno può ignorare.
Niente atomica alla teocrazia iraniana che predica la distruzione dell’‘entità sionista’? Certo. E anche giusto. Ma, secondo alcuni esperti, anche lo squilibrio atomico in favore dello Stato ebraico andrebbe valutato e discusso. Ne abbiamo la riprova sul fronte ucraino. La minaccia russa di far uso di armi nucleari (eventualmente anche solo tattiche) è il vero deterrente per cui la Nato ha obbligato i soldati dell’Ucraina (che all’inizio degli Anni Novanta accettò di consegnare a Mosca il proprio arsenale atomico) a combattere con ‘un braccio legato dietro la schiena’ per evitare un’escalation nucleare. Cos’hanno allora in comune le crescenti ambizioni territoriali di Putin e i progetti di Netanyahu di annettere gran parte della Cisgiordania a Israele?