Quel che è successo trent'anni fa a Srebrenica fu un abisso disumano da cui la comunità internazionale ha imparato poco o nulla
Dal carcere cambogiano di Tuol Sleng all’Esma di Buenos Aires fino alla pancia dell’Estadio Nacional di Santiago del Cile, i luoghi dove la morte ha fatto visite non programmate – sollecitata dalla perversità dell’uomo – si somigliano tutti. Resta sempre un soffio di aria gelida ad attraversarti, anche d’estate, e un odore immediatamente riconoscibile, sempre uguale, che tu sia in mezzo alla neve o ai tropici. Srebrenica non fa eccezione. Anzi, Srebrenica è uno dei luoghi che meglio trasmette quella barriera creata dalla disumanità altrui. Non si conta più il numero di auto partite da Sarajevo per visitarla e che hanno fatto dietrofront a pochi chilometri dall’arrivo, dopo un viaggio di ore. Chi è tornato indietro ha poi parlato di senso d’oppressione e smarrimento, addirittura di percezione di presenze malvagie. Suggestione? Certo. Ma c’è di più.
Quel che accadde trent’anni fa, proprio in questi giorni, in un posto sperduto che nessuno prima aveva mai sentito nominare e che ora e per sempre è diventato sinonimo di barbarie e genocidio, rappresenta un ulteriore scarto nella scala delle nefandezze umane.
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Caschi blu olandesi il 10 luglio 1995 a Srebrenica
Nei giorni in cui le truppe di Mladic e Karadzic mettevano a ferro e fuoco l’enclave bosgnacca (i bosniaci musulmani) uccidendo qualsiasi essere umano di sesso maschile, non importa di che età, la comunità internazionale avrebbe potuto intervenire. Anzi, era sul posto, con il contingente olandese dell’Onu. Eppure nessuno fece nulla: per via delle regole restrittive della missione, delle falle nella comunicazione e dell’inadeguatezza – su più fronti – dei caschi blu, che non avevano i mezzi né l’autorità per poter agire. Tantomeno il coraggio. Tra le altre cose respinsero – quando già avevano assistito a esecuzioni sommarie – uomini in fuga arrivati davanti alla loro base per cercare riparo: uomini (e bambini) poi trovati morti. Alcuni soldati, a mattanza in corso, si inoltrarono nell’abisso per intrattenersi con donne a cui erano appena stati massacrati mariti, padri, fratelli e figli.
A Srebrenica, la banalità del male che Hannah Arendt vide in Adolf Eichmann e nei tedeschi che – svuotati del proprio senso critico – agivano senza pensare dentro l’infernale macchina nazista, fa un passo di lato e assume una nuova forma inquietante per contagio, quella di chi è stato mandato lì per arginare quel Male, non essendone coinvolto, ritrovandosi in qualche modo assoggettato. L’area di Srebrenica aveva pure un nome beffardo: “Zona sicura”. Era un’epoca pre-internet e tutto andava più lentamente. Mentre le milizie serbo-bosniache mandavano al macello 8mila persone la cui unica colpa era di essere quel che erano, noi non sapevamo nulla o quasi, sebbene quelle guerre fratricide andassero avanti da quattro anni. Si voltarono dall’altra parte i caschi blu, la comunità internazionale, e anche noi, ognuno per la sua parte.
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Un nuovo interramento nel cimitero
Trent’anni dopo è cambiata la velocità dell’informazione. Abbiamo saputo di Bucha e sappiamo di Gaza in diretta, ci indigniamo via social prima ancora che le bombe cadano, eppure resta un senso di impotenza che non si colma con la fibra ottica: ed è la lentezza dei processi decisionali, dovuta a regole vecchie e teste ancor più vecchie a governare il mondo (l’età media di Netanyahu, Putin, Trump, Xi e Khamenei è 77 anni). La comunità internazionale fallì allora e sta fallendo anche oggi perché si antepone l’interesse personale a quelli globali, il tornaconto immediato a quello di largo respiro. Finché sarà così, il Male partirà sempre in vantaggio trovando lungo la strada abbastanza complici per compiersi.