Quello che sta facendo Donald Trump non è forse liquidare un secolo di soft power americano per trarne un tornaconto politico immediato?
Difficile rispettare l’obbligo di continenza espressiva nel commentare quello che spiritosamente viene chiamato accordo (è un po’ come parlare di “accordo” tra un leone e una gazzella, solo perché la preda si è infine ammansita, come si vede nei documentari, tra le fauci del predatore) sui dazi tra gli Stati Uniti e l’Ue. Potremmo forse parlare di capitolazione della parte europea, onde risparmiare a un continente già Vecchio e pieno di acciacchi l’onta di termini come disfatta, tracollo, sbaraglio, più cruenti ma forse anche più adatti a definire ciò che si è consumato tra le colline scozzesi come nel finale di un celebre film di James Bond, con la differenza che qui ha stravinto Goldfinger.
Certo che Donald Trump è davvero l’uomo del secolo. Nel senso che perfino nei sospiri dei suoi detrattori, tra le righe delle articolesse che ruminano sulla barbarie dei suoi metodi, si coglie spesso un riflesso di sorgiva ammirazione. Come spiegarsi altrimenti la scena al contempo straziante e sublime di Ursula von der Leyen: imbambolata e in preda a sindrome di Stoccolma, nella conferenza stampa della resa si rivolge con deferenza a Trump come “negoziatore duro, ma giusto”, mentre lui ghigna come gatto Silvestro quando dalle labbra serrate gli volteggia fuori qualche piuma di canarino.
Quel che resta del nostro Super-io collettivo è preoccupato per la piega da trivio che Trump ha impresso alle un tempo garbate relazioni transatlantiche, si indigna per i suoi metodi da biscazziere, denuncia il nesso storico tra mercantilismo e guerra. Ma il nostro Id, perlomeno quello della parte ancora egemone della nostra cultura, perfino in campo progressista, reagisce al richiamo dionisiaco di questa tardiva (anche anagraficamente) cavalcata del maschio forte, che sbatte un pugno sul tavolo e con l’altra mano palpa, arresta e punisce, rimandando la baronessa tedesca col bernoccolo della politica a occuparsi della collezione di armi antiche nella tenuta di famiglia.
Ma un’idea di forza così regressiva e paranoica non ha forse a che vedere, soprattutto, con la paura? E quello che sta facendo Donald Trump non è forse, in sostanza, liquidare un secolo di soft power americano, da Roosevelt a Obama, per trarne un tornaconto politico immediato? Forse il grande non-detto di questo Sessantotto di destra, di questa danza macabra ma apparentemente remunerativa, è che il sovranismo è anche e soprattutto generazionale. Come il capitalismo finanziario, di cui è filiazione spuria e di cui replica l’organizzazione alveare e la visione globale, difficilmente ha un orizzonte più lungo di quello dei dividendi, e ha un rapporto fondamentalmente predatorio tanto con il passato quanto, soprattutto, con il futuro.
Donald Trump non ha forse sentito dire in giro che la stagione dei dazi precede quasi sempre quella della crisi e della guerra, e che per un impero a medio e lungo termine è di gran lunga preferibile essere amato che temuto? Lo sa perfettamente, ma intuisce che la cosa non lo riguarda: è un uomo di 79 anni, il cui orizzonte di sguardo è di un anno o di tre, a seconda che si consideri il midterm o le prossime Presidenziali a cui spera di ricandidarsi a dispetto della Costituzione.
Più intrigante è il tema dell’identificazione di milioni di cittadini americani e occidentali, di tutti i generi e le età, che votano con entusiasmo per lui o tipi come lui, e per le annesse politiche edoniste ma autofagiche. Salmodiano di supremazia e difesa dell’Occidente, sono probabilmente coloro che più di tutti ne avvertono la senescenza e il declino.