laR+ IL COMMENTO

Dietro la tonaca, il silenzio

Una giustizia così non incoraggia certo le vittime a farsi avanti, le spinge piuttosto a restare nell'ombra

In sintesi:
  • Dietro le quinte c’era chi sospettava, ha tentennato e taciuto.
  • L’istituzione tende a proteggere il predatore, non la vittima. La lascia sola, isolata, non creduta.
(Ti-Press)
16 agosto 2025
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«Provo vergogna: ho tradito la mia vocazione, la fiducia di chi si era affidato a me, la Chiesa». Queste le parole, giovedì in aula, di don Rolando Leo prima della condanna per una serie di reati sessuali ai danni di minori e giovani adulti. Durante il processo il sacerdote si è giustificato parlando di distorsioni cognitive, di tentazioni demoniache, di un’emotività che ha avuto il sopravvento su una coscienza debole: “Ho raggirato e non ho saputo fermarmi. Raccontavo a me stesso che quei massaggi erano benefici. Mi sentivo invincibile”. Lui era una figura chiave: cappellano del Papio, insegnante, responsabile dell’Ufficio di istruzione religiosa scolastica della Diocesi, assistente spirituale della Pastorale giovanile. Per molti ragazzi e famiglie una guida, un padre spirituale, un punto di riferimento, un confidente intimo. Più che ascoltare i bisogni dei ragazzi, don Leo assecondava i suoi. Ha agito per soddisfare le sue pulsioni, ha avuto più occasioni per farsi aiutare – ha detto il giudice Amos Pagnamenta in aula – ma non lo ha fatto.

Un sacerdote con due volti: in pubblico, il prete carismatico e rispettato; in privato, il predatore sessuale. Una doppia vita che ricorda altri casi finiti in tribunale. E, come spesso accade, dietro le quinte c’era chi sospettava e ha tentennato e taciuto. Che si tratti di una federazione sportiva, della Chiesa o della famiglia, il copione non cambia: l’istituzione tende a proteggere il predatore, non la vittima. La lascia sola, isolata, non creduta.

Potrebbero esserci altre vittime silenziose là fuori, che non hanno ancora trovato la forza di denunciare. Un gesto che richiede un coraggio enorme, soprattutto quando le pene inflitte risultano irrisorie. Don Leo è stato condannato a 18 mesi al beneficio della condizionale: una pena persino più lieve di quella chiesta dal suo stesso difensore (36 mesi). Con una giustizia così, non si incoraggiano le vittime a farsi avanti: le si spinge a rimanere nell’ombra.

In questa storia c’è un solo vero eroe: la vittima che ha trovato la forza di denunciare gli abusi subiti. È stato l’unico ad affrontare il “drago”: don Leo per lui era come un padre. Superando la vergogna e la paura di non essere creduto, ha puntato il dito con grande coraggio contro un prelato stimato e rispettato da tutti. Affrontando una strada tutta in salita. Nel 2020 lo ha segnalato la prima volta in Diocesi: l’allora vescovo Valerio Lazzeri ha convocato don Leo, intimandogli di interrompere ogni contatto con la vittima, e di iniziare una cura psicoterapeutica. Così raccontano gli atti processuali. Risultato? Don Leo continua le sue attività coi giovani (come lasciare una volpe in un pollaio) e nessuna denuncia alla Magistratura. Gli anni passano. La vittima scopre di non essere stata l’unica e che il sacerdote aveva proseguito indisturbato i suoi “massaggi” su altri ragazzi, che riponevano grande fiducia in lui. Torna ancora di nuovo a segnalarlo: non in Procura, ma in Diocesi. Stavolta c’è un nuovo amministratore apostolico, il vescovo Alain de Raemy e la reazione è diversa.

La Chiesa ha anteposto la propria reputazione alla tutela delle vittime. La prima denuncia è stata minimizzata: don Leo avrebbe potuto essere fermato prima, evitando altro dolore. Per questo è positiva la decisione del Consiglio di Stato di introdurre, nella legge cantonale, l’obbligo di denuncia per la Chiesa cattolica e per quella evangelica riformata. Chi sa, deve agire.