La ‘fine del ’68’ è un’espressione-scorciatoia politica per dire che un ciclo di apertura e innovazione si è chiuso, e ora servono ‘valori’ e ‘radici’
“Il mondo è cambiato. La rivoluzione post-Sessantotto studentesca è finita e non sappiamo ancora come sarà il nuovo mondo. Siamo in questa fase di transizione. Se non lo capiamo, non capiamo cosa sta succedendo nel nuovo mondo. Vale per il Festival del film di Locarno, vale per la diplomazia, vale per il mondo universitario, vale per tutta la società”. Così Ignazio Cassis alla Rsi l’11 agosto scorso. Questa risposta, all’interno di un’intervista sulla diplomazia, non deve lasciare perplessi. Dagli anni Ottanta, la “fine del ’68” è un’espressione-scorciatoia di certa retorica politica per dire che un ciclo di apertura e innovazione si è chiuso, e ora servono “valori tradizionali” o “radici”, aprendo la strada a una svolta conservatrice che rivaluta ordine, tradizione e identità. Questa stessa svolta culturale favorisce l’emergere nel dibattito politico del concetto di “cristiano” o “giudeo-cristiano” come etichetta identitaria – più che religiosa – per contrapporre un Occidente idealizzato all’Islam, cancellando il contributo culturale di quest’ultimo all’Europa. Un tema tutt’altro che astratto, viste le tensioni in Medio Oriente, le deboli posizioni occidentali nei confronti di Israele e il substrato ideologico e culturale che accompagna motivazioni di chiara opportunità.
Ridurre peraltro il ’68 a un episodio studentesco non è un commento casuale: riflette una visione politica precisa. Significa minimizzare i cambiamenti profondi avvenuti nel lavoro, nei diritti civili, nella cultura e nelle istituzioni. Tra questi, va ricordato il rafforzamento dello Stato di diritto: un sistema in cui tutti sono soggetti a leggi chiare e applicate da giudici indipendenti e che in quegli anni si consolida attraverso garanzie concrete: diritti sociali, strumenti di tutela, nuove protezioni prima fragili o inesistenti. Allo stesso modo, mettere in discussione il ’68 significa, in filigrana, indebolire quelle istituzioni – tra le quali diplomazia, università e cultura – che ne hanno incarnato lo spirito e ne hanno tradotto le conquiste in pratica.
Diplomazia, università e cultura hanno un tratto comune: non agiscono con la forza, ma con consapevolezza, conoscenza e responsabilità. Sono pilastri dello Stato di diritto e di società inclusive. Università e cultura formano cittadini critici; limitarne la libertà indebolisce la difesa dalle ideologie esclusive. La diplomazia incarna dialogo e cooperazione: minarne l’autonomia apre la strada a nazionalismi e chiusure identitarie. E in un contesto di svolta identitaria e conservatrice, indebolire questi strumenti significa privarsi delle difese più efficaci contro derive autoritarie. Questi sono pericoli concreti e attuali.
Certo, siamo in una fase di transizione. Ma come la Svizzera e l’Europa stanno accompagnando questa transizione per mantenere salde le conquiste democratiche reali e non il loro involucro? E qual è il ruolo che si vuole dare a questi tre pilastri affinché il “mondo nuovo” che avanza non assomigli a certi “mondi vecchi” novecenteschi? Considerati gli accadimenti di questi ultimi anni e le esternazioni del mondo politico occidentale, qualche preoccupazione vale la pena averla. Vogliamo dunque sperare che Cassis intendesse dire che, di fronte a un mondo instabile e lacerato, la diplomazia, la cultura e l’università devono continuare a essere leve critiche, armi democratiche per preservare valori come lo Stato di diritto, la coesione sociale e l’apertura. Speriamolo, malgrado le labili premesse, e vegliamo perché ciò accada.