Cisgiordania nemmeno citata, problemi di fondo irrisolti, e se Hamas dovesse mettersi di traverso ‘Israele potrà finire il lavoro’
Si ripete spesso una battuta di Abba Eban, ex ministro degli Esteri dello Stato ebraico: “I palestinesi non hanno mai perso un’occasione di perdere un’occasione”. Mille volte citata. Entrata nella narrazione ufficiale israeliana, come se dalla sua parte le occasioni per la pace fossero state tutte sfruttate. La biografia politica di Netanyahu ci dice per esempio il contrario. Il più longevo primo ministro tutto ha fatto per contraddire, tragicamente, quella narrazione: ha declassato, fino a umiliarla, l’Olp lasciata in eredità da Arafat; ha negato la possibilità della soluzione “due popoli due Stati” ora disperatamente riabilitata (dopo un lungo colpevole sonno) dalla comunità internazionale; ha consentito che il Qatar sponsorizzasse, in soldi e in acquisto d’armi, gli islamisti di Hamas padroni di Gaza; ha spezzato ogni tentativo arabo di riappacificare quest’ultima organizzazione con la laica Fatah; ha sguarnito due anni fa la stretta vigilanza militare sui confini di Gaza per intervenire in Cisgiordania, rendendo così possibile la terroristica incursione del 7 ottobre; infine il genocidio di Gaza, circa 66’000 morti, almeno un terzo bambini, usando anche l’arma della fame e dei farmaci negati.
Ora, da Washington, “Bibi Malech Isra’el”, il “re di Israele” come lo chiamano i suoi fan, ha cercato di rassicurare tutti: lui, l’occasione offertagli dall’amico indispensabile Donald Trump non la vuole perdere, accetta dunque il piano americano (detto dei “20 punti”), una sorta di road map per porre fine alla guerra di Gaza e addirittura estendere la pace in tutto il Medio Oriente. Due dichiarazioni alla stampa hanno sigillato tanto ottimismo.
Al limite del surreale l’intervento del tycoon, che in una gran confusione di date e riferimenti storici, ha cercato di migliorarsi nell’esercizio dell’auto-incensamento, raccontando di un mondo tutto ai suoi piedi, con leader regionali e internazionale freneticamente alla ricerca di una visibile partecipazione al “miracolo” della pace. Non una parola sul numero dei morti trucidati a Gaza, molte invece sulla tragedia israeliana del 7 ottobre. A sua volta, Netanyahu ha completato l’esaltazione delle doti pacifiste del padrone di casa (che aspetta il Nobel), ma ha poi evocato le minacce al “fantastico” piano che aprirà una diversa “era dell’oro”, minacce tutte da addebitare (preventivamente) ad Hamas. Il premier ha ribadito di rimanere contrario a uno Stato palestinese, che i Paesi arabi moderati considerano invece “irrinunciabile”. Nasce inevitabile il sospetto che questo sia più il piano di Bibi che di Donald.
In breve, e per quanto si è potuto capire del progetto: immediata liberazione degli ostaggi, fine delle ostilità, ritiro graduale dell’esercito israeliano (ma non da quella che Netanyahu ha definito una “zona di sicurezza”, probabilmente l’intero Nord della Striscia), e un’amministrazione civile sotto alta sorveglianza internazionale (con un relativo comitato di controllo, presieduto da… Trump). Annunciato così, un groviglio inestricabile, o un grande bluff. Cisgiordania nemmeno citata, problemi di fondo irrisolti, e se Hamas dovesse mettersi di traverso, “Israele potrà finire il lavoro”, è stato l’avvertimento del presidente americano. Più che una “giornata storica”, come ha spesso ripetuto “The Donald”, un magmatico enigma.