Educazione

Inclusione, tra modernità e postmodernità

Se siamo figli del nostro tempo, in quest’era di profonda rottura con ciò che fu la modernità, che forma ha l’inclusione nell’educazione?

Tentare di definire il termine modernità non è impresa da poco. Infatti, questo concetto porta con sé una sorta di polisignificanza che sta all’origine delle sue molteplici declinazioni. Lo stesso si potrebbe anche dire per quanto attiene all’entrata in scena della postmodernità che – diciamo, in prima approssimazione – nasce in antitesi a quanto la modernità ha rappresentato (sappiamo, infatti, che le due epoche sono state anche così definite: modernità dal pensiero forte e postmodernità dal pensiero debole).

Il tempo come significato dell’agire

Quando si pensa alla modernità, solitamente le prime immagini che vengono alla mente sono quelle dei lumi della ragione, del progresso e dell’esercizio delle libertà: ragione per illuminare la propria relazione con il mondo e per poterlo indagare, sondare e scoprire negli infiniti e sempre nuovi aspetti che questo presenta; progresso come effetto concreto dell’uso della ragione e come idea regolativa o come condizione a cui costantemente tendere attraverso il proprio pensare e agire; libertà come esigenza concreta per esercitare lo strumento della ragione in una prospettiva di progresso (ma anche suo effetto) e simbolo di condizione di indipendenza da perseguire. Si potrebbe dire che la modernità ha quindi rappresentato il tempo del riscatto dell’individuo e della società in generale nei confronti di quanto – come le tradizioni, i miti o i dogmi – nei secoli precedenti sembrava rappresentare un vincolo o, comunque, una sorta di ostacolo troppo grande per lo sviluppo delle individualità.

Se si pensa, invece, alla postmodernità come momento di reazione alla modernità e di affrancamento dai vincoli da questa giocoforza imposti (basterebbe qui leggere le riflessioni che Michel Foucault o Gianni Vattimo ci hanno consegnato per farcene un’idea precisa) vengono subito alla mente gli elementi di una “frattura senza ricostruzione” (sono parole del filosofo Elio Franzini) o forse, più precisamente, le pratiche volte alla realizzazione di una discontinuità (tecnicamente detto: una decostruzione) di tutto ciò che, in precedenza, aveva contraddistinto la modernità.

Un dibattito intenso che riflette la società tutta

Un ragionamento attorno agli effetti della trasformazione-transizione-evoluzione (o involuzione) che dalla modernità ci ha condotti nella postmodernità e che ha configurato il contesto storico in cui, oggi, viviamo (e che ci fa essere ciò che siamo) è davvero complesso e non è certamente possibile approfondirlo in modo esaustivo andando a sondare i suoi aspetti più problematici nello spazio qui a disposizione. Cercherò, però, di cogliere questa occasione per muovere una breve riflessione – poco più di uno spunto – muovendomi in questa prospettiva per entrare nel merito di un tema – quello dell’inclusione – il quale, recentemente, è entrato di prepotenza nel dibattito politico locale, nazionale e internazionale, generando innumerevoli, e a volte anche incandescenti, discussioni; in particolare per quel che riguarda i suoi aspetti pedagogico-educativi. Infatti, i concetti di modernità e di postmodernità (soprattutto per quanto attiene ai processi che hanno trasformato la realtà da cui proveniamo – la modernità – in quella in cui siamo oggi avvolti – la postmodernità), a voler ben vedere, ci possono orientare e sostenere nel nostro tentativo di approccio al tema dell’inclusione, non fosse per il fatto che uno dei meriti principali dell’educazione (forse il principale in assoluto, poiché è di questo che stiamo parlando) è proprio quello legato all’emancipazione, cioè alla liberazione, o al riscatto, dell’individuo (bambino, giovane o adulto). Il che sta a significare: libertà, non solo agognata, ma conquistata ed esercitata concretamente e consapevolmente.

Agire sull’individuo per plasmare il collettivo

Il concetto di inclusione, se letto in una prospettiva moderna e tenendo ben presente i limiti che i tempi che lo sviluppo della storia porta con sé, è emerso in tutta la sua forza nel momento in cui si è compreso che tutti gli individui (quindi non soltanto alcuni privilegiati per censo) dovevano poter godere di opportunità, se non del tutto simili, almeno confrontabili per quel che concerne gli aspetti fondamentali della propria esistenza. In questo senso, sul piano pedagogico, l’educazione dei bambini e dei giovani si è tradotta in strumento per promuoverne l’emancipazione da forme di segregazione o, peggio ancora, di totale esclusione dalla possibilità di poter almeno prendere parte alle più importanti decisioni riguardanti il proprio destino. Questo mutamento di prospettiva, alla base del quale ritroviamo tutta la forza del concetto di inclusione, si era reso necessario poiché le esistenze individuali dovevano potersi orientare a una logica sociale comune, precisamente quella tracciata dall’uso della ragione in una prospettiva di progresso dell’intera società. In questo modo l’inclusione – in particolare, per i bambini e i giovani, attraverso l’educazione – raggiungeva un duplice scopo: liberare l’individuo dai vincoli della tradizione e generare una possibilità concreta di vita attiva e di partecipazione allo sviluppo della società in cui lo stesso era inserito (soprattutto, una volta divenuto adulto). In altri termini: si agiva educativamente sull’individualità allo scopo di dare fondamento a una precisa collettività e, quindi, di fare società.

Il rovesciamento del paradigma crea sempre più individui soli

Con l’avvento della postmodernità e con il proliferare delle logiche sociali che la sottendono, questo processo si è rovesciato: oggi si agisce infatti sulla collettività per generare individualità.

La questione potrebbe assumere le vesti di un vero e proprio paradosso nella misura in cui, oggi, tutti (i bambini e i giovani in particolare) sembrerebbero poter godere degli stessi diritti: all’educazione e alla formazione, e soprattutto a una vita dignitosa. Sappiamo, invece, che non è sempre così, poiché le spinte della globalizzazione e della mondializzazione, sorrette da un’accelerazione dei tempi della vita a dir poco vertiginosa (anche se per non pochi di noi tutto ciò rappresenta un’esperienza inebriante), stanno in verità producendo – questa, almeno, è la mia impressione – sempre più esclusione che inclusione. I bambini e i giovani (ma anche le rispettive famiglie) sono costantemente esposti a livelli di pressione e a delle richieste di performance (provenienti perlopiù dal mercato della formazione, del lavoro e dei consumi) che – sempre più frequentemente – non riescono né a reggere né tantomeno a governare; una stretta imposta da esigenze di competitività (formativa, istruttiva, ma anche di ordine estetico e sociale) che sta inesorabilmente creando profili “talmente individuali” da far precipitare quel che resta della vita dentro a una forma di ritiro sociale – quindi di esclusione – sempre più evidente (fenomeno che trova ad esempio nella scuola – che rappresenta uno degli ultimi baluardi di collettività di cui ancora disponiamo e di cui dobbiamo essere fieri – una presenza sempre più marcata).

Risulta quantomeno necessario, allora, insistere ulteriormente per offrire maggiore spazio – che si configura sulla base di coordinate di natura non solo pedagogica – di quanto oggi facciamo.

Agire educativo come essenza degli esseri umani

Bisogna approfittare di questa occasione per andare a scandagliarne il fondo, a tutti i livelli dello Stato e della Società, affinché il concetto e le pratiche inclusive trovino, grazie alle nostre riflessioni e alle relative azioni da queste scaturenti, la dignità che le contraddistingue. È necessario assumersi fino in fondo questa responsabilità, magari anche ripensando e riconfigurando l’intera questione alla luce delle emergenze con cui oggi siamo direttamente confrontati (mai indirettamente o per nulla, poiché quanto succede attorno a noi, soprattutto in un periodo storico come quello in cui siamo immersi, finisce – volenti o nolenti – con il riguardarci direttamente), magari anche conferendole nuovi (o, forse, antichi) significati in grado di reggere la feroce concorrenza che la esasperante (e assai frequentemente anche non desiderata) rincorsa di modelli di vita legati all’individualità competente e spendibile sul mercato oggi impone.

In fondo, dietro a tutto questo c’è un modello di società che ci chiama in causa direttamente. Se il tema dell’inclusione è oggi all’ordine del giorno della politica internazionale, ma anche nazionale e locale, è perché le pratiche che da questa scaturiscono rappresentano per una fetta sempre più ampia della popolazione (anche tra i giovani) un freno o, peggio ancora, una seccatura, piuttosto che uno sprone per la crescita del nostro Paese.

Un tema che, come detto, assume una valenza davvero fondamentale, anche di ordine pedagogico. Ed è anche per questo motivo che l’Associazione Essere a Scuola si è assunta l’impegno di offrire a tutti gli interessati (docenti, studenti, funzionari ma anche a coloro che guardano con attenzione a questo tema sotto altri punti di vista) un’intera giornata di lavoro (vedi box).

Un’occasione importante per riflettere e promuovere un’intelligente discussione sulle questioni che il concetto e le pratiche inclusive sollevano; quesiti che riguardano non solo il nostro agire educativo ma anche la natura profonda che ci contraddistingue come esseri umani.

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