laR+ Quando cade un quadro

La zia Rosina

Piccina piccina e molto più vecchia dei suoi quasi novant’anni, aveva la consistenza fragile di un guscio vuoto

(depositphotos)

La vidi la prima volta nella sua casetta pittata a calce, ombreggiata dai faggi, col balconcino di ferro senza sporgenza, in fondo alla salita faticosa, sterrata e bianchissima.
Zia Rosina era piccina piccina e molto più vecchia dei suoi quasi novant’anni, aveva la consistenza fragile di un guscio vuoto. Stava accucciata sul pavimento di mattoni rossi presso il camino soffiando sulla brace, di lato una panciuta brocca bianca. Un quadro di Vermeer.
Ci aveva accolti come gran signori, in quella nostra breve sosta stanca e affamata, dentro l’agosto infuocato. Eravamo in viaggio da sei ore, col piccolino capriccioso e assonnato, diretti alla punta dello Stivale, in balia delle bizze della vecchia Renault blu, che, bontà sua, alla fine ci portava sempre indenni alla meta.
Sulla tovaglia di lino cosparsa di peonie ricamate a mano, zia Rosina aveva dispiegato tutto il ben di Dio abruzzese, che dalla credenza era riuscita ad uscire, e aveva pure messo le “rustelle” sulla griglia. Ricordo il viso riarso dal troppo lavoro, ingoiato dalla campagna, dalle tante bocche da sfamare, dall’intrigo di affetti e dolori. Parlava con una vocina stretta e rauca, le mani muovevano l’aria disegnando forme e gesti, che già parevano sepolti.
Si faceva compagnia da sola, il silenzio e le assenze le stavano sempre intorno. Specie l’assenza del fratello Ercole, diceva, quello emigrato in America negli anni Venti, che i primi tempi aveva risposto alle sue lettere accorate con rare cartoline illustrate, paesaggi strani e lontani. E poi più niente. Il ricordo di lui stava tutto nella fotografia ingiallita del giovane serio, camicia bianca della festa e sorriso impreciso, appesa sopra il letto in compagnia di immagini sacre e medagliette miracolose. Un ricordo rimasto sospeso senza confini precisi, proiettato nell’aria, volava da solo, diceva, alimentando dolorose attese.
Zia Rosina conviveva con scarti di pensieri e strappi di luce, che bussavano alle finestrelle col fiato del mare. Da lì fissava il sole fino a lacrimare, il tempo di un incanto stordito. Di tanto in tanto avvertiva una fitta al fianco, come una freccia, diceva. Allora camminava piano, una smorfia sulle labbra pallide, una mano sul lato destro. Sopportava la freccia con rassegnazione, da lì un giorno sarebbe arrivata la morte, pensava. La vita era oramai un piccolo suono incerto.
La vidi quella sola volta e poi mai più.