Il chiodo che lo teneva sospeso aveva ceduto al tremendo urto, quella scura strana piovosa mattina agostana
Il chiodo che lo teneva sospeso aveva ceduto al tremendo urto, quella scura strana piovosa mattina agostana. Antonio, tredici anni da compiere, poggiava sulla mezza porta chiusa col catenaccio dal dentro, una gamba sul pavimento di sasso e l’altra piegata, contro il legno. Gli altri, seduti al tavolo a mangiare pane e confettura nell’attesa che passasse lo stratempo per continuare a mungere, con l’acqua che scrosciava senza pausa. A lui, invece, era venuta voglia di guardare fuori. Di colpo, i secchi per mungere che vedeva saldi nelle mani del Cecco, sotto la tettoia, volarono per aria come se li avesse lanciati e le mucche si voltarono a gambe in su come sgabelli all’ora di chiusura. Un rumore da finimondo, mai sentito prima e che sembrava non finire mai. E una luce abbagliante che avanzava e che gli occhi non potevano reggere. Il suo corpo cadde all’indietro, contro la credenza dalle antine foderate con la plastica a fiori.
Schiena a terra, occhi chiusi, braccia aperte, i sensi andati chissà dove. Fuori, il cielo sembrava voler cadere e farsi inghiottire dalla terra. I maiali fuggivano gridando, ognuno per conto suo. Gli altri pastori, incolumi, urlavano bestemmie incredule e spaventate che, quella volta, non sarebbero state punite. Lui, vestito com’era, col sangue che macchiava i gomiti per la caduta, lo alzarono di peso e lo buttarono su una branda. Respirava, e tanto bastava. Cos’altro possiamo fare, dicevano, speriamo solo di non dover chiamare il parroco. E poi, c’è da continuare a mungere, dicevano. Ci rimase per tre giorni, sotto una coperta e di fianco a una tazza di latte. Una gamba dura come il marmo, la vista annebbiata, nella testa un sibilo costante. Sudava e biascicava e sudava ancora, con degli assi davanti alle finestre per tenerlo al buio, che di chiaro ce n’era stato fin troppo.
Sono passati cinquantasette anni da quando non era mancato moltissimo a finirla contro quelle antine dai fiori gialli e rossi, anneriti dal fumo. Steso su una poltrona in velluto, la racconta e ne ride, quasi. Era lì perché voleva capire quel macigno che gli pesava sullo stomaco e si sentiva raccontare di superare, sciogliere, elaborare, di trauma mai superato, di pastiglie, di ricoveri. Lui raccontava quello che gli avevano detto il Cecco e gli altri, che lui ricorda solo quella palla di fuoco caduta dal cielo, risalita lungo il cavo della teleferica e poi deviata verso quello del vecchio telefono militare agganciato al colmo della stalla con la mezza porta, dove di solito si stava a fare colazione in compagnia. Ricorda anche quel quadro, con non sa più che immagine dentro, appeso di fianco alla porta con, sotto, un rametto di ulivo attaccato con una cordicella, come si usava.
Si era staccato dal muro e da allora volteggiava per aria, senza riuscire a cadere.