Alla 24 Ore del 1955 una manovra azzardata di Mike Hawthorn provocò il più grave incidente della storia del motorismo, che fece addirittura 84 morti
Soltanto il Gp di Formula 1 di Imola del 1994, quando perì Ayrton Senna, ebbe altrettanta attenzione da parte della stampa di quella riservata alla 24 Ore di Le Mans del 1955, e anche nel caso della corsa francese – purtroppo – a fare notizia fu la morte più che le prodezze dei piloti. Del resto, era un’epoca in cui, nel motorsport, gli incidenti tragici erano assai frequenti, sia perché non esisteva alcuna sensibilità in relazione alla sicurezza, sia perché a quei tempi, con la morte, la gente aveva un rapporto assai diverso rispetto a oggi. Era più facile da accettare, forse perché ancora si moriva parecchio a causa delle malattie, o magari per via delle guerre – assai frequenti – che avevano creato una certa assuefazione alla morte violenta.
Sta di fatto che, pochi giorni prima di quell’11 giugno 1955, data che diverrà indelebile per la portata della tragedia che si consumò sul circuito della Sarthe, il milieu aveva già subito una grave perdita: a fine maggio, infatti, se n’era andato Alberto Ascari. Finito in mare a Montecarlo con la sua Lancia durante il Gp di F1, venne ripescato assai scosso per l’incidente e, per evitare di cedere irrimediabilmente alla paura, quattro giorni dopo – a Monza – chiese e ottenne di fare un paio di giri sulla Ferrari 750 al volante della quale il suo amico Eugenio Castellotti aveva appena effettuato dei test. Ascari non si era portato il casco e dunque, malgrado la sua superstizione circa l’uso di un elmetto altrui, accettò di infilarsi quello del collega. Neanche dieci minuti più tardi, Ascari uscì di pista e morì a 36 anni, lasciando il mondo delle corse orfano del pilota più in auge del momento.
La 24 Ore di Le Mans – la corsa più leggendaria che andava in scena in territorio europeo – nella tarda primavera del 1955 non si presentava dunque sotto i migliori auspici, questo è certo, ma nessuno – nemmeno il più scettico dei pessimisti – avrebbe mai immaginato l’enormità della sciagura che stava per abbattersi sulla cittadina francese e su tutti gli appassionati delle quattro ruote. Quello che, esattamente 70 anni fa, appariva come un magnifico pomeriggio di sole sarebbe infatti passato alla storia come il Disastro di Le Mans, il più grave incidente nella storia del motorismo, una strage che avrebbe fatto 120 feriti e addirittura 83 morti fra la folla assiepata sulle tribune per veder sfrecciare i più arditi piloti al mondo sui bolidi più performanti in assoluto.
L’incidente all’origine di tale disgrazia, verificatosi nel corso della terza ora di gara, venne provocato dal britannico Mike Hawthorn, che al termine di un’azzardata manovra per doppiare la Austin-Healey di Lance Macklin, inchiodò e sterzò bruscamente a destra con la sua Jaguar per effettuare una sosta tecnica, come già da mezz’ora i membri del suo team gli stavano chiedendo di fare. Ai tempi, ancora non esisteva la corsia dei box, che sorgevano ai lati del rettilineo principale, senza alcuna separazione dal tracciato vero e proprio.
Macklin non poté fare altro che affondare a sua volta il piede sul freno e, per evitare l’impatto con Hawthorn, allargò a sinistra: per malasorte, però, proprio in quell’istante sopraggiungeva a 250 chilometri orari la Mercedes del francese Pierre Levegh, per la quale la Austin, travolta, funse da rampa di lancio. Dopo un volo pauroso, la vettura di Levegh atterrò sul terrapieno che divideva la pista dalla tribuna, e si spezzò prendendo fuoco. Diverse parti della Mercedes piombarono sul pubblico, falciando per 80 metri un numero enorme di persone che si ritrovarono smembrate, ustionate, decapitate. La scena che si presentò ai soccorritori, pochi e piuttosto impreparati, ricordava a detta dei testimoni i campi di battaglia delle due Guerre mondiali.
Pierre Levegh, che fu sbalzato dall’abitacolo e morì all’istante a causa dei traumi riportati, fu la vittima numero 84. Al momento dell’incidente, il parigino aveva già compiuto cinquant’anni, e per la 24 Ore della città della Loira nutriva un’autentica ossessione: voleva vincerla a tutti i costi. Tre anni prima, alla guida di una Talbot, ci era andato molto vicino: solo la rottura del motore nell’ultima ora di gara, quando aveva quattro giri di vantaggio sugli inseguitori, l’aveva privato del trionfo. A penalizzarlo fu però un suo stesso errore: stremato dalle 22 ore di guida consecutive – si era infatti rifiutato di cedere il volante al compagno di squadra Jean Trevoux –, all’uscita di una curva, mentre apriva al massimo, inserì la marcia più bassa invece di quella più alta, e inevitabilmente grippò. Il coraggio mostrato suscitò l’interesse della Mercedes, che nel 1955 gli affidò una vettura in grado di imporsi, ma – come visto – il sogno venne spezzato insieme alla sua vita e a quella di altre 83 persone.
La corsa, malgrado la carneficina, non venne interrotta, e i piloti, schivando i detriti, continuarono a girare per altre venti ore di fianco ai cadaveri ammucchiati. I giudici dissero poi che avevano preferito non annullare la competizione per consentire alle ambulanze di raggiungere il luogo della tragedia senza essere ostacolate dalla moltitudine di gente (oltre 250mila spettatori) che, sfollando, avrebbe intasato le vie d’accesso al circuito, e forse avevano pure ragione. A imporsi, e a festeggiare la vittoria senza alcuna vergogna, fu ironia della sorte proprio Mike Hawthorn, cioè colui che, con una condotta sconsiderata, la tragedia l’aveva direttamente provocata. Tre anni più tardi, il pilota dello Yorkshire sarebbe diventato campione del mondo di Formula 1 con la Ferrari, mentre l’anno seguente, ventinovenne, sarebbe a sua volta morto al volante, nel corso di una gara illegale disputata su strade aperte al traffico. Erano davvero altri tempi, come dicevamo in apertura.
Ad ogni modo, malgrado l’apparente indifferenza da parte di organizzatori e appassionati, fu proprio in seguito a quella strage consumatasi settant’anni fa che, per la prima volta, si cominciò – nell’ambiente – a discutere di sicurezza, fino a quel momento del tutto inesistente. Il problema, dunque, era stato quanto meno messo sul tavolo, ma ci vollero ancora molti anni prima di vedere in quest’ambito qualche risultato concreto. Di fatto, le prima misure vagamente efficaci furono adottate soltanto dopo gli incidenti mortali occorsi a Lorenzo Bandini (Montecarlo 1966) e Jim Clark (Hockenheim 1968).
Gli unici provvedimenti scaturiti dopo il Disastro di Le Mans del 1955, peraltro soltanto simbolici, furono il ritiro dalle gare della Mercedes – che tornò in pista soltanto 32 anni più tardi – e la messa al bando per legge, da quel giorno in poi, di ogni competizione motoristica su suolo elvetico. Il Gran Premio di Svizzera, che dal 1934 al 1954 era stato un appuntamento fisso dei più prestigiosi calendari delle quattro ruote (si disputava sul circuito di Bremgarten, presso Berna) venne infatti cancellato e mai più reintrodotto.