Per dare impulso allo sviluppo del gioco, il Paese asiatico – un tempo rigidissimo sulle naturalizzazioni – ha modificato le leggi sull’immigrazione
L’ultima frontiera del pallone è il calciomercato delle Nazionali. Chi si era scandalizzato per le naturalizzazioni facili di Cina, Togo e Qatar, che avevano fatto sbottare l’ex presidente Fifa Joseph Blatter («Avanti così e in futuro giocheremo un Mondiale con soli giocatori brasiliani in campo»), non poteva immaginare la fabbrica di passaporti messa in piedi dall’Indonesia, che negli ultimi due anni ha naturalizzato ben 21 giocatori.
Si tratta di una squadra nuova di zecca, costruita nel tentativo di qualificarsi alla fase finale della Coppa del mondo, con l’unica partecipazione avvenuta nel 1938 quando l’Indonesia nemmeno esisteva, ma era una colonia dell’Olanda e si chiamava Indie Orientali Olandesi. Quella al Mondiale francese fu, di fatto, la prima e unica partecipazione di una rappresentativa coloniale alla Coppa del mondo, nonché l’unica volta in cui lo stesso inno nazionale, il Wilhelmus, venne suonato due volte nello stesso turno.
Una partecipazione che durò lo spazio di 90 minuti, nei quali le Indie Orientali Olandesi vennero subito travolte 6-0 dall’Ungheria ed eliminate dal torneo. Erano una Nazionale multietnica, una novità assoluta per l’epoca, composta da giavanesi, molucchesi, batavi, cinesi e olandesi. E proprio lì, meno di un secolo dopo, sta tornando l’Indonesia, con la sua squadra imbottita di olandesi, affiancati a qualche raro giocatore autoctono, ma anche a spagnoli, inglesi e italiani. Un processo puramente politico che, nonostante la fame di calcio del quarto Paese più popoloso al mondo (281 milioni di abitanti) dopo Cina, India e Stati Uniti, sta sollevando diverse perplessità, anche in patria.
Fino a qualche tempo fa, l’Indonesia era uno degli Stati più conservatori a livello di concessione del passaporto, basti pensare che il Paese non ammette la doppia nazionalità per gli adulti. Esiste un’eccezione per i figli di matrimoni misti, i quali però devono fare una scelta prima di compiere 21 anni. Una rigidità fonte di accesi dibattiti nel Paese, soprattutto in un’era globalizzata come quella attuale, con diversi politici che hanno suggerito di allentare la presa, consentendo i doppi passaporti per attrarre all’estero personale altamente qualificato con radici indonesiane.
Il calcio rientrava tra le eccezioni per meriti sportivi, anche se il procedimento di naturalizzazione era lungo e complesso, e comporta tuttora la rinuncia all’altra nazionalità. Fino al 2023, però, i pochi casi riguardavano calciatori che per ragioni di carriera si erano trasferiti in Indonesia, militando in squadre del campionato locale e abitando in loco. Tra questi c’era l’olandese Marc Klok, che per scelta di vita lasciò Amsterdam per l’Indonesia, dove è diventato una stella locale e si è costruito una altrimenti impossibile carriera internazionale, disputando 19 partite con la Selezione indonesiana.
Klok parla fluentemente l’indonesiano e ha raccontato di tutti gli esami che ha dovuto superare per ottenere la nazionalità. «Uno sulla conoscenza della lingua, uno sul Paese, uno sull’inno nazionale, e uno sui cinque principi della Pancasila, come qui chiamano il fondamento filosofico dello Stato. Si è trattato di procedure lunghe, serie e rigorose».
Procedure che, da Klok in avanti, sono progressivamente state snellite, e dai cinque anni attesi dall’anglo-olandese Sandy Walsh, difensore ex Genk e Mechelen dalle origini indonesiane, per ottenere il passaporto si è passati ai due mesi delle recenti ultime naturalizzazioni, avvenute a marzo, del portiere del Palermo Emil Audero, e di due giocatori olandesi, Dean James del Go Ahead Eagles e Joey Pelupessy del Lommel. Questi ultimi sono rispettivamente gli oranje numero 18 e 19 che hanno prestato giuramento per ottenere la cittadinanza indonesiana dal gennaio 2023, per una lista che comprende anche Eliano Reijnders, fratello del milanista Tijani, e Jay Idzes del Venezia.
Si è passati dai giuramenti individuali a quelli collettivi, dagli esami di lingua, storia e cultura alla semplice toccata e fuga presso l’ufficio del ministero a Giacarta, indossando un peci (il copricapo nero nazionale), cravatta rossa e camicia bianca, alzando indice e medio della mano destra al cielo, intonando l’inno nazionale e borbottando qualche parola di rito.
Ma per alcuni giocatori, stritolati da calendari calcistici sempre più fitti, la trasferta in Indonesia poteva risultare ardua da incastrare fra tutti gli impegni, così è stato deciso di aprire una filiale per la naturalizzazione a Bruxelles, e sono stati emanati decreti presidenziali per permettere i giuramenti anche presso l’ambasciata a Londra.
La Federcalcio indonesiana, del resto, ha fretta di annunciare nuovi arrivi a ogni appuntamento internazionale. Il deus ex machina dell’operazione è il magnate nel settore dei media e dello sport Erick Thohir, già noto in Europa per essere stato proprietario dell’Inter.
Primo indonesiano a possedere quote di franchigie americane (i Philadelphia 76ers in Nba e il Dc United di Mls), fondatore di una lega asiatica di pallacanestro, ex presidente del Comitato olimpico indonesiano nonché attuale azionista dell’Oxford United, in Indonesia non esiste spazio mediatico o sportivo dove non cada la sua ombra.
Dal 2023 è presidente della Federcalcio indonesiana, con il compito di ristrutturare e modernizzare l’organizzazione, ma anche di professionalizzare il sistema calcio attraverso una serie di riforme e obiettivi, quali ad esempio un calendario delle competizioni che non si sovrapponga più alle date delle partite delle Nazionali, l’introduzione del Var e, soprattutto, la creazione di una rappresentativa nazionale che possa collocare l’Indonesia sulla mappa mondiale.
Questo investitore/magnate dei media/politico/dirigente sportivo non ha raccolto un’eredità semplice, visti i problemi avuti dalla Federazione con la Fifa negli ultimi anni, dalla squalifica dalle qualificazioni al Mondiale 2018 dopo che il governo aveva annullato il campionato nazionale, alla revoca dell’organizzazione del Mondiale di calcio Under 20 dopo che l’Indonesia, il Paese musulmano più grande del mondo, si era opposta alla partecipazione di Israele.
Una delle prime mosse di Thohir è stata l’ingaggio di Patrick Kluivert come ct dell’Indonesia, che si è portato con sé uno staff tutto olandese che include anche Gerald Vanenburg e Jordi Cruijff, figlio dell’indimenticabile Johan. Kluivert non è il primo nome importante a sedere sulla panchina del Team Garuda (in passato ci furono Peter White, Wim Rijsbergen, Louis Milla), e in passato ha fatto anche bene a livello formativo e di valorizzazione con la Nazionale di Curaçao. Ma è indubbio come il suo nome risulti strategico per attirare giocatori di livello discreto, fuori dall’orbita delle proprie Nazionali di origine ma non così mediocri da non fornire alcun valore aggiunto alla propria Selezione.
Con le continue infornate di calciatori che sta predisponendo l’Indonesia, c’è ormai concorrenza sufficiente a causare l’esclusione dei primi ‘pionieri’ come Klok. «Il nuovo corso mi è costato il posto», dice il giocatore. «Non sono contento, ovviamente, ma mi piace pensarmi come un apripista. Quello che io ho conquistato con fatica adesso viene ottenuto con uno schiocco di dita, senza nemmeno conoscere una parola di indonesiano o essere mai stati nel Paese, ma va bene così.
L’importante è che sia utile per la crescita del calcio nel Paese. Mi auguro che l’aver trasformato l’Indonesia in una sorta di Nazionale olandese non sia stata solo una scorciatoia per la Coppa del mondo, ma rappresenti un punto di partenza per stimolare la crescita e la competitività dei talenti locali».
La linea globalista del presidente Fifa Gianni Infantino punta a sviluppare nuovi ambiti calcistici, sia sportivi che commerciali, e si sta caratterizzando per una maggiore malleabilità rispetto a quella del predecessore Blatter, basti pensare all’allargamento della Coppa del mondo a 48 squadre e alla possibilità data ai giocatori che avevano già disputato partite internazionali di cambiare casacca. La strategia dell’Indonesia è quindi al sicuro.
In un comunicato la Fifa ha dichiarato che a lei spetta verificare la conformità in tema di nazionalità e origini prevista dal regolamento, ma non entra nel merito delle procedure di naturalizzazione, demandate alle singole autorità e federazioni nazionali. Le critiche più aspre arrivano dall’interno del Paese. Dopo le partite di qualificazione contro Arabia Saudita e Australia, l’ex ambasciatore indonesiano Peter Gontha ha commentato sui social che «sarebbe meglio preservare la dignità della nazione piuttosto che degradarsi costruendo una squadra di figurine.
Questa politica di naturalizzazioni non serve a nessuno. Non al nostro calcio, il cui sviluppo è totalmente fittizio, ma nemmeno ai naturalizzati, che rinunciano a una cittadinanza, e quindi ai benefici sociali nel loro Paese, per uno spicchio di carriera internazionale, visto che non si tratta di naturalizzazioni temporanee come a qualcuno piace sostenere. La Federcalcio smetta di dire bugie a tutti».